Aurora nel buio

 

Aurora nel buio
Barbara Baraldi

Editore: Giunti Editore
Pagine della versione a stampa: 528 p.
EAN: 9788809857490
Genere: Gialli, thriller, horror Thriller e suspence Thriller

SINOSSI

Aurora Scalviati era la migliore, fino al giorno di quel conflitto a fuoco, quando un proiettile ha raggiunto la sua testa. Da allora, la più brava profiler della polizia italiana soffre di un disturbo bipolare che cerca di dominare attraverso i farmaci e le sedute clandestine di una terapia da molti considerata barbara: l’elettroshock. Quando per motivi disciplinari Aurora viene trasferita in una tranquilla cittadina dell’Emilia, si trova di fronte a uno scenario diverso da come lo immaginava. Proprio la notte del suo arrivo, una donna viene uccisa. Il marito è scomparso e l’assassino ha rapito la loro bambina, Aprile, di nove anni. Su una parete della casa, una scritta tracciata col sangue della vittima: «Tu non farai alcun male». Aurora è certa che si tratti dell’opera di un killer che ha già ucciso in passato e che quella scritta sia un indizio che può condurre alla bimba, una specie di ultimatum. Ma nessuno la ascolta. Presto Aurora capirà di dover agire al di fuori delle regole, perché solo fidandosi del proprio intuito potrà dissipare la coltre di nebbia che avvolge ogni cosa. Solo affrontando i demoni della propria mente potrà salvare la piccola Aprile ed evitare nuove morti.

 

C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.

Leonard Cohen, Anthem

UN ESTRATTO

PROLOGO

Ci sono storie che raccontano di luoghi infestati, di case in cui il male ha messo radici a causa delle tragedie che vi si sono consumate, di spazi che di quel male sono stati ispiratori. I racconti popolari parlano di inspiegabili rumori provenienti da case disabitate, di voci diafane e lamenti trasportati dal vento.
Casa Ranuzzi era uno di quei luoghi.
Era situata nella periferia, circondata da un piccolo cortile, con un rigoglioso albero di melograno sul retro. Da molto tempo, però, non c’era nessuno a raccoglierne i frutti.
Casa Ranuzzi era disabitata da oltre vent’anni. Gli abitanti del paese se ne stavano alla larga, e molti avevano preferito dimenticare la storia del suo proprietario.
Diversamente da ciò che si racconta sulle case infestate, però, dall’interno di casa Ranuzzi non proveniva alcun rumore. C’era un costante, assordante silenzio. E certe notti la nebbia era così spessa da inghiottire la casa. Come se non fosse mai esistita.
Si dice che un evento particolarmente violento lasci tracce indelebili nei luoghi in cui si è consumato. I fantasmi di casa Ranuzzi erano le scritte sulle pareti delle stanze.
Scritte che gridavano ossessioni. Scritte che popolavano gli incubi dei pochi che non erano riusciti a dimenticare la storia del Lupo Cattivo. Il mostro con l’ascia, che aveva fatto a pezzi un’intera famiglia, l’incarnazione del male stesso, giunto in città da chissà dove come un angelo della morte.
In certi luoghi il male si annida come un ospite indesiderato. Come un predatore silenzioso.
Come il ragno che tesse la tela, per oltre vent’anni il male annidato in casa Ranuzzi era rimasto in attesa della sua preda.

Fino a oggi.

1

Tre mesi prima del Risveglio

L’automobile percorse lentamente il sentiero che conduceva alla villetta. Si fermò accanto a un fuoristrada nero, l’unico altro mezzo presente nel piccolo piazzale. La ragazza si guardò intorno per alcuni istanti, poi scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, svelando una lunga cicatrice a lato della tempia.
Si trovava in un luogo isolato, ma non era questo a renderla inquieta. Afferrò la busta imbottita dal sedile del passeggero e solo in quel momento si rese conto che le mani le tremavano. Il battito del cuore era accelerato e irregolare.
La ragazza con la cicatrice avvertì un lieve formicolio alla fronte e si toccò, temendo che fossero degli insetti. Li immaginò brulicare sul viso, intrufolarsi negli occhi e nelle orecchie, farsi strada attraverso la bocca e invaderle la gola. Si tastò con cautela, ma erano soltanto piccole perle di sudore ghiacciato.
Fece alcuni lunghi respiri, inalando più aria che poteva, ma il cuore sembrava impazzito. Sapeva cosa stava per succedere. Aveva provato quell’oppressione un’infinità di volte. Era la sensazione che precedeva un attacco di panico.
La ragazza ebbe la tentazione di riavviare il motore e andarsene. Appoggiò e riprese la busta dal sedile un paio di volte, poi si bloccò, abbandonandosi allo schienale, e colpì il volante con un pugno.
No, non si sarebbe lasciata sopraffare. Questa volta avrebbe reagito.
Con mani tremanti, sfilò dall’interno della camicetta il ciondolo che portava al collo. Era un portapillole d’argento. Lo aprì, ne estrasse una piccola pastiglia bianca e la ingoiò, deglutendo a fatica. Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre con forza. In qualche modo, riuscì a controllare il respiro. Attese un paio di minuti, infine si decise a scendere dall’auto.
Raggiunse il portone d’ingresso, evitando di calpestare le pozzanghere lasciate dal recente acquazzone. Strisciò più volte gli anfibi sullo zerbino per rimuovere il fango dalle suole. Premette il pulsante del citofono e rimase in attesa, con lo sguardo fisso sulla piccola telecamera montata sul dispositivo, finché una voce maschile non la invitò a entrare.
La ragazza con la cicatrice si trovò in una piccola sala d’attesa dall’intonaco sbrecciato e con una fila di sedie a ridosso di una parete. Di fronte a lei una porta chiusa, dipinta di verde.
«Professor Mascarelli?» chiamò.
Non ricevendo risposta, impugnò la maniglia e aprì la porta. Entrò in uno stanzone quadrato dal pavimento in legno e vaste scaffalature stracolme di libri. Un’ampia finestra panoramica permetteva di ammirare la rigogliosa vegetazione del bosco che circondava la villetta. C’era una scrivania al centro della stanza, sopra un tappeto dall’aspetto polveroso.
Un uomo tarchiato attraversò la porta scorrevole su un lato della stanza. Era sulla sessantina, con i capelli radi e gli occhi così sporgenti che gli donavano l’aspetto di un grosso anfibio. Indossava una camicia a quadri e un paio di jeans logori e informi.
«Lei dev’essere Aurora Scalviati» disse con un sorriso vagamente compiaciuto. «Mi scusi per l’attesa, ma le persone con cui di solito ho a che fare sono tutt’altro che impazienti di incontrarmi.»
«Credevo di essere stata chiara al telefono. Non deve mai chiamarmi per nome» lo corresse lei.
L’uomo si accarezzò il mento, pensieroso. «Già. L’avevo dimenticato» borbottò. Poi si schiarì la voce, sforzandosi di assumere un atteggiamento professionale, distaccato. «Ha portato le sue cartelle cliniche?»
La ragazza gli consegnò la busta. «Dentro c’è anche il compenso che abbiamo pattuito.»
L’uomo rovistò nella busta, analizzandone sommariamente il contenuto. Dopo aver intascato la mazzetta di banconote, estrasse un paio di fogli stampati al computer e fermati da una graffetta.
«Ha… cancellato il suo nome dai referti?» chiese, stupito.
«Credo che tutto sommato sia anche nel suo interesse» ammise la ragazza. «Se qualcosa dovesse andare storto, non credo vorrebbe che legassero il mio nome al suo.»
«O forse è il contrario» fece l’uomo, ironico.
«Nessuno deve sapere che sono stata qui» continuò la ragazza, ostentando sicurezza. Ma il suo sguardo tradiva un vago smarrimento, difficile da nascondere. Gli occhi erano irrequieti, solcati da occhiaie profonde, e passavano ripetutamente in rassegna gli angoli della stanza.
«È piuttosto pallida» la incalzò l’uomo. «È sicura di stare bene?»
«Se stessi bene non sarei qui, non crede?»
L’uomo borbottò qualcosa tra sé, poi prese un paio di occhiali dalla scrivania e li indossò. Lesse il contenuto dei fogli. «Lei è stata ricoverata in una clinica specializzata nel trattamento di questo tipo di disturbi» mormorò. «Se i medici non hanno potuto risolvere il suo problema, cosa le fa pensare che io sia in grado di farlo?»
«Le terapie farmacologiche a cui sono stata sottoposta non hanno dato i risultati sperati. E i medici hanno stabilito che sottopormi all’ECT era troppo rischioso.»
«Terapia Elettro-Convulsivante. Detto così suona molto più rassicurante della parola elettroshock, non trova?»
«Pensano che sia troppo pericoloso a causa delle mie… condizioni generali.»
«Lei è stata ferita in modo piuttosto serio» fece l’uomo. «Posso chiederle come è successo?»
«Non ho intenzione di parlare di questo.»
Seguì un lungo istante di silenzio, in cui l’uomo assunse un atteggiamento difensivo. «Lei è della polizia, vero?»
«È complicato» si limitò a rispondere la ragazza.
«Posso chiederle come ha avuto il mio nome?» la incalzò lui.
La ragazza alzò leggermente una spalla. «Nella mia posizione ottenere certe informazioni non è poi così difficile.»
L’uomo sospirò. «Immagino conosca già le possibili controindicazioni del trattamento. Le avranno parlato delle complicazioni cardiovascolari, delle convulsioni, dei mal di testa lancinanti e delle possibili perdite di memoria.»
«Perdere la memoria sarebbe il minore dei mali» constatò amaramente la ragazza.
L’uomo allargò le braccia, come in segno di resa. «E va bene» sospirò. «Ho allestito una stanza dove potrà riposare dopo che avremo finito con la prima seduta. C’è qualcuno che può prendersi cura di lei?»
La ragazza si guardò intorno per qualche istante, smarrita. «C-cosa intende?»
Dalla reazione, l’uomo si rese conto quanto la sua domanda fosse inappropriata. Era così chiaro, bastava guardarla. Quella ragazza era la persona più sola che avesse mai incontrato.
«Anche quando saranno cessati gli effetti dell’anestesia non sarà assolutamente in grado di guidare» precisò. «Come pensa di tornare a casa?»
«Niente anestesia» lo seccò la ragazza.
«Il dosaggio di metoexitale è molto basso, in modo da garantire un rapido risveglio dopo il trattamento.»
«Niente anestesia» ripeté lei. «Ho bisogno di restare cosciente per tutto il tempo.»
«D’accordo» disse l’uomo, sedendosi alla scrivania. Dopotutto, erano in molti a sostenere che le persone depresse si sentono colpevoli, e l’ECT soddisfa il loro bisogno di ricevere una punizione.
Da un cassetto prelevò un blocco di fogli prestampati. «Ho ancora qualcuno dei miei ricettari di quando esercitavo.» Compilò tre ricette, le strappò dal blocco e le porse alla ragazza. «Tra una seduta e l’altra potrebbe esserci un peggioramento delle sue condizioni. Questi farmaci le serviranno per tenere sotto controllo le crisi d’ansia.»
«Ricette false» commentò la ragazza.
«Non penso che abbia intenzione di denunciarmi.»
La ragazza prese le ricette e le infilò nella tasca interna della giacca.
«Mi segua, prego.» L’uomo le fece strada attraverso un corridoio poco illuminato, alle cui pareti erano appese riproduzioni di celebri opere d’arte del Rinascimento. Il pavimento in legno scricchiolava a ogni suo passo. «Lo sapeva che i primi esperimenti furono ispirati da procedure in uso in un macello di Roma negli anni Trenta del secolo scorso? Pare che stordissero i maiali con delle scosse elettriche prima della macellazione. Un gesto di pietà nei confronti di quelle povere bestie…»
«Non sono venuta fin qui per una lezione di storia, professore.»
«La prego, lasci perdere i titoli accademici» si schermì l’uomo. «Non hanno alcun valore da quando sono stato sospeso dall’Albo.»
Aprì la porta di uno studio arredato in modo spartano, con un armadietto dei medicinali a ridosso di una parete, a fianco di una finestra dalle imposte chiuse. Al centro c’era un lettino, accanto al quale erano affiancati un’asta per flebo e un carrello con un computer, l’apparecchiatura elettrica per l’ECT e vari dispositivi medici. Da una bombola pendeva una mascherina per l’ossigeno. La luce proveniva da una lampada nuda appesa al soffitto.
«Ha assunto dei farmaci prima di venire qui?»
«No» mentì la ragazza, sistemando la giacca all’appendiabiti all’ingresso.
Dopo che si fu distesa sul lettino, l’uomo le posizionò la mascherina di ossigeno sul viso e aprì la valvola di erogazione. «Dovrà respirare qui dentro per un paio di minuti per preossigenare i tessuti.»
Le strinse un laccio emostatico intorno alla coscia destra. Le sollevò la manica della camicia e prese una siringa dal carrello.
«Cos’è quella roba?» fece lei, allarmata. Attraverso la mascherina, la voce risuonò ovattata.
«Succinilcolina» rispose lui. «È un agente rilassante. Serve a interrompere l’attività muscolare per mitigare l’effetto delle contrazioni.»
«Un paralizzante» puntualizzò lei.
«Non si preoccupi, rimarrà comunque vigile per tutto il tempo. L’effetto della succinilcolina svanirà nel giro di pochi minuti. Le convulsioni dureranno tra i trenta e i novanta secondi, ed è necessario iniettarla per evitare che si fratturi le costole o la spina dorsale. Il laccio emostatico serve a isolare una parte del corpo, in modo che io possa assicurarmi che non sta avendo un infarto.» Fece una pausa. «Prima di cominciare, come misura precauzionale, le inietterò una soluzione a base di ossigeno, dato che non sarà in grado di respirare da sola.»
Dopo aver effettuato entrambe le iniezioni, l’uomo sfregò le tempie della ragazza con un batuffolo di cotone e applicò gli elettrodi. Poi le mise un apribocca di gomma tra i denti. «Questo per evitare che si rompa i denti o si morda la lingua.» Infine, impugnò la manopola della macchina ECT. «È pronta a cominciare?»
La ragazza con la cicatrice sbatté le palpebre con cenno di assenso.
L’uomo ruotò la manopola con decisione.
Il corpo della ragazza fu scosso da violenti spasmi, mentre il suo cervello veniva attraversato da una scarica di 480 volt. Gli occhi si rovesciarono all’indietro. Nella mente esplosero frammenti di ricordi, flash sconnessi di un altro tempo e un altro luogo.
Per un attimo, non era più lì.
Ma di nuovo al vecchio mattatoio, dove tutto era cominciato.
Sentì le urla, poi gli spari.
E tutto si fece buio.

 

Barbara Baraldi

Barbara Baraldi, originaria della Bassa Emiliana, è autrice di thriller, romanzi per ragazzi e sceneggiature di fumetti, tra cui la serie «Dylan Dog». Il suo esordio nella letteratura poliziesca avviene sulle pagine de «Il Giallo Mondadori» con La bambola di cristallo. In contemporanea con l’uscita del romanzo in Inghilterra e negli Stati Uniti, viene scelta dalla BBC tra i protagonisti del documentario Italian noir sul giallo italiano.