Il codice di Tarso

Il codice di Tarso

Marco Garzonio

Editore:Paoline Editoriale Libri
Pagine della versione a stampa: 248 p.
ISBN eBook PDF 9788831560122
ISBN volume cartaceo 9788831535717
www.paoline.it
In copertina: foto di Tor-Sven Berge.
Prima edizione digitale 2012

Argomento religioso e spirituale.

 

SINOSSI

Un medico si reca in Terra Santa. È un momento particolare della sua vita: 56 anni, crisi in famiglia, affermato in una professione di cui è però ormai difficile trovare il senso, rapporti sociali improntati a un sostanziale conformismo. L’incontro con Rut, guida ebrea, la conoscenza di altri partecipanti al viaggio, la capacità evocativa dei luoghi aiutano Giovanni Picapedra a capire le ragioni delle sue difficoltà e le conseguenze per il futuro. Giunto a Gerusalemme, Giovanni gira per la città vecchia. Entra nella bottega di un antiquario arabo dove si imbatte in un antico codice. È il manoscritto di due lettere di san Paolo: l’Epistula Beati Pauli Apostoli ad Romanos Secunda e l’Epistula ad Mediolanenses Prima. Capisce che si tratta di opere sinora sconosciute. Non sa che fare, attratto e diffidente insieme. Rivolge all’antiquario una vaga promessa di tornare il giorno successivo. La notte, invece, ha un lungo sogno-incubo. Vede due protagonisti degli anni della sua formazione. Sono Paolo VI e Pier Paolo Pasolini che hanno un confronto sull’attualità di san Paolo. Il Papa sprona i cristiani “a fare di più”, mentre l’artista contesta alla Chiesa l’incapacità di parlare al mondo contemporaneo, accusandola di non aver più “la furia paolina”. Al risveglio Giovanni acquista il prezioso documento e riesce a portarlo fuori da Israele. I testi, tradotti, vengono riportati in appendice del libro.

UN ESTRATTO

 Il tesoro è oltre il ponte

«Le cose veramente grandi possono fare grandi anche piccoli uomini che le discutono tra loro».
Agostino d’Ippona, Contra Academicos I,2,6
«No stamp, please». Glielo avevano tanto raccomandato di non lasciarsi timbrare il passaporto. La giovane poliziotta lo fissò, gli occhi verdi, grandi, brillanti, inquisitori. «Giovanni Pi-cà-pe-dra?». «Sì, Picapèdra. Sono io». Era imbarazzato. Voleva dire a quella ragazza che per lui sarebbe stato indifferente avere o meno il segno del suo ingresso in Israele. «Guarda che con quel timbro, però, non ti lasciano più entrare nei Paesi arabi. Devi rifare tutto», era stato l’avvertimento di Ferrari, il collega al quale aveva confidato il viaggio in Terra Santa. La poliziotta gli restituì il passaporto vergine. Con lieve, altero cenno del capo aveva già invitato l’altro turista in coda dietro Giovanni ad avanzare e a sbrigarsi nell’esibire i documenti.
Fuori dall’aeroporto di Tel Aviv aspettavano i funzionari dell’agenzia. Con discrezione, un giovanotto dalla pelle bruna chiese a ciascuno il nome, che andò a spuntare man mano su un elenco. Giovanni avvertì un’aria tiepida, umida, di mare. Respirò profondamente, con gusto. Fin da bambino la salsedine era una sensazione di piacere e di stacco dalla città. «A posto. Ci son tutti. Sì, anche i bagagli sono stati caricati», disse il giovanotto alla guida e all’autista. Ancora qualche convenevole e il pullman partì. Prese la strada che portava al Nord del Paese, in Galilea.
La guida si presentò. «Mi chiamo Ruth Friedenthal. Faccio questo mestiere da anni. Sono arrivata in Israele bambina, dal Sud America. Lì la mia famiglia si era rifugiata per sottrarsi alle persecuzioni razziali. Abbiamo beneficiato della legge del ritorno. Sapete cos’è? Sì? No? Beh, è la legge che dà diritto a ogni ebreo di stabilirsi in Israele per il solo fatto di essere ebreo. Non importa sia praticante. Avremo occasione di parlarne. Mi sono laureata in storia dell’arte a Gerusalemme. Avrei avuto belle prospettive come ricercatrice e insegnante, ma ho scelto di non proseguire nell’accademia. Mi sono sposata giovane. Ho un marito – è uno scienziato, un fisico – e due figli grandi. Il mio lavoro mi piace. Amo illustrare i tesori di questa terra, farla apprezzare nella sua straordinaria unicità. Appunto a nome del mio Paese vi do il benvenuto in Israele: Shalom, che equivale un po’ al vostro “ciao”, ma in realtà vuole dire “pace”. Sì, proprio: pace. Sentirete dire la stessa cosa in arabo, Salam. Questo vi annuncia che siete nella culla delle tre religioni monoteiste. Ebraismo, cristianesimo, islam vivono qui. Lungo il viaggio avrò modo di darvi notizie su questa realtà che dal 1948 è lo Stato d’Israele».
Le ultime parole di Ruth giunsero all’orecchio di Giovanni come provenissero da molto lontano, sulla scia d’un’eco. La testa gli si piegava sul petto. Le palpebre si fecero pesanti. Cercò di sollevare il capo, che però gli ricadde in avanti. Stese le braccia, scivolando leggermente sul sedile. Il movimento del pullman cullava quel corpo stanco e abbandonato.
Mi recavo a un incontro. Il Professore mi aveva dato appuntamento a mezzogiorno. Ci tenevo a vederlo. Glielo avevo chiesto io. Non ricordo se per la competenza che aveva nella professione o per l’autorevolezza morale che gli veniva riconosciuta. D’improvviso il taxi sbanda: ha un testacoda. L’auto gira più volte su se stessa. Il mondo attorno ruota. Mi spavento. Ho paura. Sto per urlare, ma il conducente riesce a riportare il mezzo in carreggiata. Sollevato, commento: «Ci è andata bene!». Il tassista guarda attraverso lo specchietto retrovisore e sorride. Ha un’aria d’intesa che mi lascia di stucco. Dice: «Il tesoro è di là dal fiume, oltre il ponte».
«Tutto bene? Ha bisogno di qualcosa?», Giovanni si sentì chiedere dalla guida che si era chinata su di lui.
«Grazie. È tutto ok. Mi ero appisolato».
«Certo, un viaggio lungo da Milano. Per ogni necessità, comunque, sono qui».
Giovanni annuì e sorrise, non senza disagio. Era sorpreso e stralunato. Si sforzava di fissare i particolari del sogno: l’emozione del testacoda; la mancanza di punti di riferimento; la paura che tutto finisse all’improvviso, con un botto. Forse era stata quest’ansia a procurargli il sussulto che aveva richiamato Ruth. E che lo aveva fatto svegliare, con un gemito soffocato.
Guardò fuori dal finestrino. Aveva nell’orecchio l’eco dell’espressione «oltre il ponte». Vide scorrere colline, ulivi, campi di terra rossa, pietre, case coloniche, greggi, banani, palme. E fiori. “Che tinte, che violenza di colori”, mormorò tra sé Giovanni. Cascate di buganvillee violacee scendevano rigogliose dai muri delle abitazioni e dei recinti. Cespugli di campanule arancioni si levavano alti. Distese di girasoli chiazzavano l’orizzonte.
Nel pullman era sceso il silenzio. Qualcuno dormiva. Altri leggevano. O guardavano di qua e di là della strada. Una signora bisbigliava. Giovanni si incuriosì. Vide il movimento delle mani in grembo. La donna stava recitando il rosario. “Arriveremo finalmente!”, Giovanni disse tra sé con impazienza. E cercò di assestarsi nel sedile che sentiva andargli un po’ stretto.
Era l’imbrunire quando la comitiva giunse a destinazione. Una doccia veloce prima di cena e Giovanni telefonò alla moglie.
«Sei contento, allora, di avermi lasciata a Milano e di essere lì da solo», gli fece lei. C’era ironia, oltre a una dose di risentimento nella sua voce.
«Beh, ma anche a te, alla fine, andava bene di non avermi per casa».
«Certo, con quell’umore che ti ritrovi di questi tempi».
«Che vuol dire? Ho solo bisogno di staccare. Lo sai anche tu».
«Certo. Per quando torni ti voglio come nuovo, però. Hai capito?»
Appariva insolito, Giovanni. Era stato abituato a passare oltre le cose, a tirar diritto con spavalderia. E non si risparmiava una certa insolenza, quando qualcuno si frapponeva ai suoi obiettivi. Era come se nulla potesse scalfirlo. La professione lo aveva abituato ad assumere decisioni rapide, spesso immediate, sempre risolute. Da un po’ di tempo, invece, si era scoperto vulnerabile, esposto a cadute di tono cui seguivano riprese veementi quasi rabbiose. Delusioni recenti avevano contribuito ad acuire alcuni tratti del carattere e, insieme, a mettere in dubbio le certezze che amici e colleghi gli riconoscevano. Lo irritava l’insicurezza di cui incominciava a sentirsi vittima. Non gli bastava cogliere che il malessere era naturale in un uomo di solide ambizioni e di notevole successo, che però stentava ad abituarsi al mutamento di clima. «La situazione è vischiosa. Siamo nella mucillagine», gli faceva notare Ferrari, l’amico e collega che, per il suo realismo, lui spesso utilizzava come sparring partner dialettico. «Allora prendiamo il largo. E ne veniamo fuori», era la risposta di Giovanni. «Da chi andiamo? E dove? Guardati in giro. È una fatica di Sisifo». «Ci vuole immaginazione e fantasia», tagliava corto lui. Ma era il primo a sapere che quella replica era solo un modo per chiudere un discorso imbarazzante. Non aveva le idee chiare, ma mai lo avrebbe ammesso. Negli ultimi tempi la baldanza era minata da tentennamenti. Lui s’arrabbiava e aveva timore.
Con la paura di non farcela Giovanni non s’era abituato a misurarsi. Anzi, d’acchito diceva di non averla mai incontrata veramente. Per cui adesso, quando ne intravedeva anche solo l’ombra, diventava guardingo nei modi e aggressivo nei toni, come se l’interlocutore, a casa o in studio, con amici o colleghi, mettesse in discussione non solo le sue competenze, ma anche l’onestà intellettuale con cui egli era convinto di muoversi.
A riprova, era accaduto di recente che gli avessero chiesto aiuto per un progetto di assistenza umanitaria. Lui vi si era lasciato trasportare da uno slancio inusitato. «Non ti conosco più. Meglio: ritrovo il Giovanni degli inizi», gli aveva detto Laura, la moglie, mesi avanti vedendo come si buttava nell’iniziativa che presto, però, lo avrebbe deluso acuendo la sua reattività.
«Guarda che stamane si son fatti vivi dall’Associazione di assistenza, solidarietà e cura», gli comunicò Laura andando a toccare il punto dolente.
«Li hai mandati al diavolo?»
«A quello ci hai già pensato tu, mi pare», rispose Laura. Una battuta che provocò fastidio in Giovanni. Gli evocava lo scenario confuso che lo agitava negli ultimi tempi, un groviglio di cui stentava a trovare il bandolo. Aveva intrapreso il viaggio in Israele anche per capirci qualcosa e far luce dentro di sé.
In effetti, uno dei motivi del disagio ultimo stava nelle contraddizioni che vedeva nel progetto dell’Associazione. Gli pareva che fosse giunto il momento di mettere in chiaro il perché si andasse ad aiutare gli immigrati e di porre dei paletti nei confronti delle autorità. Dopo gli entusiasmi iniziali che sembravano aver attivato in lui slanci di tempi lontani – i primissimi anni Settanta – erano intervenuti i dubbi. Giovanni si era trovato a contestare l’atteggiamento dell’Associazione. «Perché dobbiamo supplire alle carenze e agli egoismi delle istituzioni pubbliche?», aveva obiettato al direttore. E, alla risposta: «Perché tocca a noi praticare la carità, che, come dice san Paolo, ha un cuore grande e agisce con benevolenza», Giovanni era sbottato: «Eh, no, caro monsignore. Non è in discussione l’amore per gli ultimi, i diseredati, le vittime delle ingiustizie, ma il modo di concepire oggi questo servizio». L’altro aveva abbozzato che si trattava di una scelta nazionale degli organismi ecclesiastici. Al che Giovanni aveva alzato il tiro: «Se turiamo le falle d’una politica priva di ideali, se non denunciamo la strumentalizzazione che vien fatta della generosità dei cristiani, siamo sciocchi e tradiamo pure lo spirito del Vangelo». «Ma la Chiesa non fa politica!», era stata la replica dura, seccata. «La fate quando accettate un ruolo di supplenza e non evidenziate che manca la visione di bene comune. Vi rendete conto che, tacendo, trasformate schiere di buoni samaritani in un esercito di assistenti sociali di complemento?». «Cosa dice?». «Che offrite l’immagine di una Chiesa omologata al sistema, presa dall’organizzazione e preoccupata di non turbare gli equilibri istituzionali. Mentre la Chiesa è una realtà spirituale e ha un ruolo profetico! La gente si aspetta che i cristiani siano testimoni credibili, non solo gestori di servizi».
L’evocazione di quel contrasto provocò in Giovanni un lungo respiro. «Gli ho detto quello che si meritavano: lo sai anche tu», fu la sua risposta alla moglie. Il tono risentito copriva le perplessità che a lui stesso erano venute dopo la baruffa. “Per il modo, non per la sostanza”, si era detto come autodifesa quando aveva ripensato all’accaduto. E a poco erano valsi i richiami di Ferrari a un più saggio pragmatismo. «Vuoi riscattare le delusioni della professione dedicandoti all’aiuto dei poveri? Fallo. I condizionamenti ci saranno sempre. La dialettica tra spirituale e temporale è il paradosso della Chiesa sin dalle origini». «Ma se non stai attento, ti rendi complice della confusione collettiva, fai il gioco di chi continua a coltivare i suoi interessi e di quelli che puntano a mantenere le cose come stanno», aveva contrattaccato Giovanni. L’altro, ironico e spazientito, si era divertito a rievocargli: «Non fare il don Chisciotte all’età che hai! Ricordati di quando pensavano di buttarti fuori dalla fuci». E Giovanni, alterato: «Che c’entra? A parte il fatto che allora stavo in buona e numerosa compagnia nel sostenere il no all’abrogazione del divorzio». «Se però non ti salvava don Giorgio…». «Macché, capirono che non gli conveniva tirar troppo la corda. Ferrari, non possiamo imporre la nostra visione a chi non la pensa come noi: allora e adesso. Questa è la nostra Costituzione! Lo capisci?». «Oggi, forse, puoi parlare così, alla luce dell’esperienza, ma allora…». «No, lo stesso papa era diviso a quei tempi. Intimamente lacerato. Lo sai anche tu. Col cuore Pao-
lo VI stava con i vecchi amici della fuci, proprio gli stessi che avevano contribuito in modo determinante a stabilire i principi della Carta costituzionale. Poi, nell’azione pastorale finiva per sostenere la dc e la destra neofascista che ci portarono al referendum e allo scontro politico. Ne paghiamo ancora le conseguenze».
Laura assunse un tono maternamente ammonitore. «Però loro, quelli dell’Associazione, hanno compiuto il primo passo, sono tornati a farsi vivi. Col viaggio avrai il tempo per pensarci. I Luoghi Santi ti aiuteranno. A proposito, oggi ha telefonato anche la signora Robotti. Chiedeva un appuntamento».
«Ma son via…»
«Gliel’ho detto, figurati se non gliel’ho detto. Soltanto che quando ha sentito che eri partito per la Terra Santa se n’è uscita in un urletto di gioia: “Sto meglio, sto meglio, signora Picapedra, non glielo dica neanche quando lo sente. Sarà per quando torna”. Hai capito?»