LA CORONA PERDUTA

Giampietro Stocco
LA CORONA PERDUTA

 

Odissea Digital Fantascienza | 47

Come sarebbe oggi l’Europa se non ci fosse stato Napoleone? Lo immagina il maestro della storia alternativa Giampietro Stocco

A cura di Silvio Sosio

Romanzo | pagg. 309 | 13/02/2018 | Fantascienza

Dove trovarlo:

Delos Store –  Amazon.it Kobo Google Play

 

SINOSSI

1796: il giovane generale francese Napoleone Bonaparte viene sconfitto e ucciso nella prima Campagna d’Italia. L’alleanza delle monarchie europee ristabilisce l’ordine in Europa cancellando dalla storia la rivoluzione francese. 2006: la nazione leader in Italia è la Spagna borbonica, che domina anche su parte dell’Italia e della Francia. Solo a Genova sopravvive l’ideale repubblicano. Ma sarà proprio Genova a trovarsi al centro di una ragnatela di cospirazioni e di trattative diplomatiche per scongiurare un disastroso conflitto mondiale.

Da Giampietro Stocco, maestro dell’ucronia, un affascinante affresco di un mondo che avrebbe potuto essere.

 

UN ESTRATTO

Uno

Anton si deterse il sudore con un fazzoletto sudicio, abbandonando per un momento i controlli della pesante gru sposta container. Scheiße – sibilò tra i denti. Per essere un giorno di primavera faceva già caldo, e l’intensità dei raggi del sole veniva amplificata dalle pareti di vetro dell’abitacolo.
– Come va lassù, Mozart? – cantilenò una voce nella radiotrasmittente agganciata alla cintura. – Ci stiamo riposando fuori pausa? Guarda che vi conosco tutti, voi crucchi. Buoni solo a lamentarvi e a darci di mollo. Forza! Questo carico dobbiamo spostarlo entro stamattina, capito?
È un vero bastardo, pensò Anton dopo che il Baciccia ebbe interrotto la comunicazione. Fa il caposquadra da trent’anni e ha ancora voglia di menarla agli operai… Avevano tentato più volte, lui e gli altri precari non italiani, di attivare il Mutuo Soccorso per finirla con questo schiavismo, ma non c’era stato verso. A Genova, primo porto del Mediterraneo, non contava se si era profughi o emigrati. Gli stranieri erano visti di buon occhio solo se dimostravano di essere grandi lavoratori. C’era o non c’era la concorrenza di Barcellona da fronteggiare? – Puoi sempre andartene in Spagna, sai? – gli aveva detto infatti il delegato sindacale. – Qualsiasi italiano metterebbe la firma per fare il lavoro che fai tu, crucco! Pensa a lavorare e a rinnovare il permesso di soggiorno! E ringrazia che non ci sono più i servi della gleba!
Erano in svariate migliaia nella capitale della Repubblica, austriaci, ungheresi, polacchi, lituani e croati. Tutti rifugiati nell’unico Paese che aveva aperto le sue porte dopo i fatti dell’’89, la Mitteleuropea cattolica che aveva tentato di federarsi sotto la guida del vecchio Otto d’Asburgo, figlio dell’ultimo imperatore d’Austria Carlo I. Una minaccia troppo diretta al predominio spagnolo, e così Carlo VI di Borbone, Re di Spagna e del Portogallo e Imperatore del Messico, Sovrano della Comunità Latinoamericana e dei Regni dell’Europa Centrorientale, aveva ricordato a tutti un terribile episodio di quasi un secolo prima: nel tentativo di reprimere le rivolte in atto a Budapest e a Trieste, l’imperatore Carlo I era stato convinto a inviare i Freikorps. Guidate dal giovane colonnello Rudolf Hess, queste unità di fanatici avevano utilizzato in dosi massicce una sostanza che provocava il blocco del sistema respiratorio. Gas mostarda, lo avevano chiamato, dal colore della nuvola che ne annunciava la diffusione nell’aria. I morti si erano contati a migliaia.
Maledicendo per l’eternità il nome dell’esecrato Hess e del degenerato Adolf Hitler che ne aveva consigliato l’impiego al debole imperatore, Carlo VI aveva invocato il diritto della Monarchia Iberica a schiacciare i “barbari del gas nervino”. Di più. Aveva anche inviato i suoi carri armati nei Paesi fratelli.
L’opinione pubblica era impallidita di fronte alla repressione, anche perché Otto d’Asburgo non aveva nulla a che vedere con le debolezze o le cattive compagnie del genitore, e il suo era un progetto pacifico da perseguirsi attraverso una consultazione popolare.
Nessuno però, in Europa o nel mondo, aveva osato opporsi all’intervento borbonico. Lo stesso Re di Spagna, di fronte a massacri che non aveva messo in conto, si era accordato con i fidati Genovesi per assorbire l’enorme flusso di profughi che premeva alla frontiera alpina. In questo modo una vera e propria guerra divampata nel cuore d’Europa era stata declassata a operazione di polizia. Tutti avevano tirato un sospiro di sollievo. Tutti, meno chi non aveva più una casa o una famiglia.
Ad Anton era andata bene: sua madre e suo padre erano fuggiti in Baviera da parenti, lui invece, insieme a suo fratello Herbert e ad altri disertori aveva varcato a quindici anni le montagne vicino a Dobbiaco. Il gruppo poi si era frammentato, ma Herbert e Anton avevano scelto Genova. Dopo alcuni mesi Herbert si era stabilito in Sardegna, mentre Anton aveva trovato posto in un dignitoso monolocale sugli Erzelli, un quartiere tutto nuovo sulle colline che era stato costruito una decina di anni addietro.
Era stata un’opera titanica e costosa. Via i container vuoti che stavano lì ormai da decenni, spazio a case, uffici imprese e società di navigazione. Il fiore all’occhiello della Repubblica. Ma la realizzazione di “Villaggio Futuro”, come si era poi deciso di chiamarlo, si era sovrapposta alla nuova, massiccia emergenza-profughi. Così, all’ombra delle sei torri alte fra i cento e i centosessanta metri ciascuna, nuovo simbolo di Genova, abitavano ora in più di cinquantamila, una sorta di città nella città, dove la lingua corrente era diventata il tedesco. Loro, gli immigrati, ci si sentivano già come a casa e la chiamavano Klein Wien, la piccola Vienna. I Genovesi avevano subito storpiato il nome in Clavìn e, dopo averne magnificato il recupero, evitavano quelle colline come la peste.
Un vero peccato, pensò Anton. Ormai sono lì le migliori pasticcerie di Genova! Con la disinvoltura dei suoi venticinque anni si calò dalla sua gru. “Tra una mussa e l’altra”, come dicevano i Genovesi, si era fatta l’ora della pausa, e il suo metro e novantatré di altezza reclamava cibo.
– Sempre lì a mangiare, non è vero, Mozart?
– Hai sbagliato soprannome, Baciccia – rispose Anton, l’italiano cantilenante dei liguri appena segnato dall’accento tedesco. – Non sono nato a Salisburgo, ma a Innsbruck!
– Eh? E cosa vorresti dire? Qui il capo sono io e decido come ti chiami… Mozart!
È ignorante come una zucca, pensò Anton, ma per quieto vivere non si azzardò a precisare che Wolfgang Amadeus Mozart era originario di Salisburgo e non di Innsbruck. Lavorava in
quell’impresa da un paio di mesi e non poteva permettersi una lite col caposquadra. Non ancora. Ma il Baciccia aveva già cambiato obiettivo.
– Tu, laggiù! Franseize! Ouh! Ceccu! Fai finta de ninte?
Hein?
Il nuovo bersaglio si rese conto di essere al centro dell’attenzione e si voltò. Era un esile giovane biondastro, più o meno coetaneo di Anton. Il suo nome era Gérard, ed era originario di Burdeos, l’antica Bordeaux, l’unico porto atlantico della Francia sul quale non sventolava la Union Jack, ma il vessillo spagnolo con lo stemma dei Borboni. Sapevano poco, Anton e gli altri operai, di Gérard. Aveva detto loro solo una volta, e con assai poco garbo, di essere protestante. Era dovuto emigrare, sosteneva, cinque anni addietro con tutta la famiglia, quando Re Carlo aveva introdotto in Spagna il divieto di culto per tutte le confessioni non cattoliche. Un viaggio interminabile, condotto attraverso il cosiddetto Corridoio, la fascia sotto amministrazione fiduciaria genovese che univa l’Atlantico al Mediterraneo, collegando Burdeos a Ventimiglia.
Hein un belino, giovanotto! – Baciccia si stava arrabbiando. Non andava bene che due stranieri gli tenessero testa nello stesso giorno. Il massiccio capo operaio strinse due pugni grossi come pompelmi e si avvicinò minaccioso al francese.
– Voi franseixi non imparate mai, non è vero?
– Ma cosa dici, mon ami? – Gérard sorrise ancora strafottente.
– Dico che prima di tutto la devi finire di fare pausa ogni quarto d’ora per fumare quella merda!
– Queste qui merde? Mon ami, sono Gauloises… È tutto quanto il vostro Re Carlo ci concede del nostro antico Paese! Mi fanno sentire a casa!
– Ma allora tu non capisci proprio…
Il Baciccia aprì un pugno e colpì Gérard con l’enorme palma. La sigaretta volò via per planare in una pozzanghera, dove si spense sfrigolando. Il giovane barcollò ma rimase in piedi, l’impronta rossa ben visibile sull’incarnato pallido della guancia.
– Qui si riposa se lo dico io! Si mangia se lo dico io! Si parla se lo dico io e si fuma quello che dico io! È abbastanza chiaro, ceccu?
Ancora quel termine odioso. Anton sentì pena per il giovane girondino. Ceccu era peggio di crucco, e molto più recente. Lo usavano i Genovesi come dispregiativo per i profughi francesi. Quale ne fosse l’origine era incerto. Forse la causa erano stati i tanti transalpini che erano sciamati verso Genova come venditori ambulanti, immancabilmente presentandosi come “François”.
Gérard si ripulì in silenzio il filo di sangue che aveva cominciato a scendergli da un angolo della bocca. Intanto il Baciccia continuava a concionare.
– … E voi franseixi siete quelli che hanno meno diritti di tutti, capito? Voi e la vostra spocchia, vi abbiamo cacciati via noi liguri, ve lo ricordate? E adesso che vi diamo da mangiare, dovete imparare il rispetto!
– Adesso basta, Baciccia – si sentì dire Anton. Si era fatto avanti senza nemmeno accorgersene. – Il ragazzo è solo un po’ sbruffone.
– E tu chi sei per difenderlo, Mozart? Ti conosco da nemmeno due mesi e l’unica cosa che so di te è che ti piacciono troppo le pause pranzo!
– Voglio solo dire che … mi pare abbia capito la lezione. Vero, Gérard?
Era la prima volta che Anton si rivolgeva al giovane francese, e questi girò lo sguardo, sprezzante, verso il mare. Poi sputò platealmente per terra.
– Lo vedi? – riprese Baciccia. – Questo qui è proprio un maleducato. E mi sa che la lezione non gli è bastata!
Il capo operaio strinse di nuovo i pugni e irrigidì i muscoli delle spalle. Senza farsene accorgere, Gérard fece un movimento improvviso tra spalla e mano. Una lama scintillò per qualche istante al sole.
Anton fu ancora più svelto. Si proiettò in avanti dando una spallata al girondino. Questi, colto di sorpresa, si fece disarmare con facilità, nascosto dalla mole corpulenta dell’austriaco.
– Adesso stai fermo e finiscila di fare cazzate! – sibilò Anton, gutturale, all’orecchio di Gérard. Poi alzò la voce. – Cretino di un ceccu, chi ti credi di essere? Continua così e ci rimetteremo tutti quanti!
Anton si rialzò e studiò il francese. C’era ancora un sorriso di sfida sulle labbra carnose. Nello sguardo, però, balenò un lampo d’intesa.
Il Baciccia si avvicinò, separando i due giovani con un certo compiacimento dipinto sulla faccia rubizza.
– Su, su voi due zuvenotti! Adesso basta. Tu, Mozart, hai fatto la prima cosa giusta della giornata. Forse, ma solo forse, sei più intelligente di quanto pensassi. E tu, franseize, adesso torna al lavoro. Faremo i conti più tardi.
Gérard si allontanò a testa bassa, dopo avere scoccato ad Anton un nuovo, rapido sguardo. L’austriaco fece per raggiungerlo, quando Baciccia lo afferrò per un braccio.
– Fermo lì, Mozart. Da quando in qua ti preoccupi della mia salute? – L’omone sorrideva con un angolo della bocca, ma gli occhi erano vigili e attenti.
– Io… io non capisco che vuoi dire. Volevo solo insegnare a vivere a quell’arrogante.
– Oh, certo. E io sono l’imperatore! Credi che non avessi visto la mossa di quella piccola serpe? Stavo giusto per rompergli un braccio. Perché mi hai fermato?
– Non c’era bisogno né di fratture, né di coltellate.
– Sagge parole per un crucco. Ma continua così. E adesso, se vuoi, vagli a parlare. E digli che se ci riprova lo apro io, dalla pancia alla gola, come una buga.
L’enorme pugno si aprì, e Anton si allontanò verso gli spogliatoi, massaggiandosi il braccio.

 

L’autore

Giampietro Stocco è nato a Roma nel 1961. Laureato in Scienze Politiche, ha studiato e lavorato in Danimarca per alcuni anni. Giornalista professionista in RAI dal 1991, è stato al GR2 e attualmente lavora nella sede regionale per la Liguria di Genova, la città dove risiede. Studioso e maestro del genere ucronia, ha pubblicato finora sette romanzi: Nero Italiano (2003) e il sequel Dea del Caos (2005), Figlio della schiera (2007), Dalle mie ceneri (Delos Books 2008), Nuovo mondo (2010), Dolly (2012), La corona perduta (2013). Da Dea del Caos il regista Lorenzo Costa ha tratto un adattamento per il palcoscenico che è stato messo in scena dal Teatro Garage di Genova nel 2006 e nel 2007. Nel 2006 ha vinto il premio Alien.