La grande truffa

La grande truffa

John Grisham

Traduttore: Luca Fusari, Sara Prencipe
Editore:Mondadori
Dimensioni:481,35 KB

Pagine della versione a stampa: 310 p.
EAN:9788852084591
Gialli, thriller, horror

  • Thriller e suspence
  • Legal thriller, thriller politico

 

Descrizione
Gli studenti Mark, Todd e Zola si sono iscritti alla scuola di legge di Washington con le migliori intenzioni e il sogno di cambiare il mondo una volta ottenuta la sospirata laurea. Dopo essersi coperti di debiti per poter pagare le rette salatissime di una mediocre scuola privata, i tre amici si rendono conto di essere oggetto di una grande truffa. Il loro istituto, infatti, insieme a molti altri, è nelle mani di un potente e losco investitore newyorchese, che è anche socio di una banca specializzata nella concessione di prestiti agli studenti. Dopo anni di sacrifici e false promesse di un lavoro sicuro, Mark, Todd e Zola capiscono che con ogni probabilità non riusciranno mai a passare l’esame di avvocato. Ma forse c’è una via d’uscita: l’obiettivo è farla franca con i grossi debiti accumulati e vendicarsi del torto subito. E per fare tutto ciò i tre devono lasciare subito gli studi, fingere di avere i titoli per praticare la professione di avvocato, eleggendo il Rooster Bar, dove si incontrano abitualmente, a loro quartier generale. È un’idea completamente folle, o no?
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 .

ESTRATTO

1

Con la fine dell’anno arrivarono come sempre le feste, anche se a casa Frazier non c’era granché da festeggiare. Con gesti meccanici, Mrs Frazier addobbò un alberello di Natale, incartò qualche regalo da poco e fece dei biscotti che nessuno aveva voglia di mangiare; sullo stereo andava l’immancabile Schiaccianoci, e lei canticchiava allegramente in cucina come se quel periodo fosse davvero felice.
Ma la situazione era tutt’altro che felice. Mr Frazier se n’era andato di casa tre anni prima, anche se, a dir la verità, nessuno ne sentiva la mancanza; anzi, lo disprezzavano. Da un giorno all’altro era andato a vivere con la giovane segretaria, che, per giunta, era già incinta. E per Mrs Frazier, abbandonata, umiliata, in bolletta e depressa, i problemi non erano finiti.
Louie, il figlio minore, era agli arresti domiciliari, una specie di libertà su cauzione, e tra l’accusa di detenzione di stupefacenti e tutto il resto gli si prospettava un anno difficile. Non si era nemmeno preoccupato di prendere un regalo alla madre; la scusa era che non poteva uscire di casa per il braccialetto elettronico. Ma se anche non l’avesse avuto, nessuno si aspettava che si sarebbe disturbato a comprare qualcosa, com’era successo l’anno prima e quello prima ancora, quando aveva le caviglie libere.
Mark, il figlio maggiore, era a casa per le vacanze, in pausa dagli orrori della scuola di legge, e pur essendo più povero del fratello era riuscito a comprare un profumo alla madre. Si sarebbe laureato a maggio, avrebbe sostenuto l’esame di abilitazione a luglio e a settembre avrebbe cominciato a lavorare in uno studio di Washington, proprio quando era stata fissata l’udienza preliminare di Louie. Il caso non sarebbe mai andato a processo, e per due buoni motivi. Primo, gli agenti sotto copertura lo avevano beccato a vendere dieci bustine di crack – c’era persino un video –; secondo, né Louie né sua madre potevano permettersi un avvocato decente. Durante le vacanze, sia Louie che Mrs Frazier avevano buttato lì che Mark avrebbe potuto farsi avanti per difenderlo. Non si poteva prendere tempo finché non fosse diventato avvocato – tanto mancava poco – e poi trovare uno di quei famosi cavilli per far cadere le accuse?
Questa piccola fantasia presentava grosse falle e Mark non aveva nessuna voglia di parlarne. Il primo dell’anno, quando fu chiaro che Louie aveva intenzione di guardare sette partite di football di fila monopolizzando il divano per almeno dieci ore, Mark uscì in silenzio e andò da un amico. Quella sera, rientrando a casa in macchina ubriaco, decise di levare le tende. Sarebbe tornato a Washington e avrebbe ingannato il tempo facendo qualche lavoretto per lo studio in cui presto l’avrebbero assunto. Mancavano ancora due settimane all’inizio delle lezioni, ma dopo dieci giorni a sentire Louie che piagnucolava e si lamentava dei suoi problemi, per non parlare dello Schiaccianoci che andava in continuazione, Mark era stufo marcio e non vedeva l’ora che cominciasse l’ultimo semestre.
Puntò la sveglia alle otto. Il mattino dopo, mentre beveva il caffè con la madre, le spiegò che a Washington avevano bisogno di lui. Scusa se me ne vado prima del previsto, mamma, e scusa se ti lascio qui da sola col figliol prodigo, ma devo andare. Educarlo non è compito mio. Ho già i miei problemi.
Il primo era la sua auto, una Ford Bronco che aveva fin dalle superiori. A metà dell’università il contachilometri si era bloccato a quota trecentounomila. Aveva un bisogno disperato di una nuova pompa dell’alimentazione, uno dei tanti pezzi di ricambio sulla lista delle urgenze. Negli ultimi due anni, con del nastro adesivo e delle graffette, Mark era riuscito a tenere insieme il motore, la trasmissione e i freni, ma con la pompa dell’alimentazione non aveva avuto altrettanta fortuna. Funzionava, ma a una potenza inferiore al normale, e infatti la macchina raggiungeva al massimo gli ottanta chilometri orari in piano. Così, per evitare di essere schiacciato da un camion in autostrada, Mark non si allontanò dalle strade secondarie della campagna del Delaware e dall’Eastern Shore. E invece di metterci due ore da Dover al centro di Washington ne impiegò il doppio.
Ebbe il tempo di rimuginare sugli altri suoi problemi. Il secondo era l’opprimente debito studentesco. Aveva finito il college con sessantamila dollari da restituire e senza lavoro. Suo padre, che all’epoca sembrava felicemente sposato ma era anche lui oppresso dai debiti, lo aveva messo in guardia dal proseguire gli studi. Aveva detto: «Diamine, quattro anni di università e un buco di sessantamila dollari. Molla prima che peggiori». Seguire i consigli finanziari del padre gli sembrava assurdo, così per un paio d’anni aveva fatto qualche lavoretto come barista e fattorino delle pizze, cercando nel frattempo di contrattare con i creditori. Guardandosi indietro, non sapeva bene da dove gli fosse venuta l’idea della scuola di legge, ma ricordava benissimo di aver origliato una conversazione tra due tizi di una confraternita che discutevano dei massimi sistemi bevendo pesantemente. Mark serviva al bar, il locale non era affollato e al quarto giro di vodka e succo di mirtillo i due parlavano a voce così alta che tutti li sentivano. A Mark erano rimasti impressi due argomenti: «Gli studi legali di Washington assumono come pazzi» e «Lo stipendio iniziale è di centocinquantamila l’anno».
Poco tempo dopo si era imbattuto in un compagno di college che frequentava il primo anno alla Foggy Bottom Law School di Washington: era entusiasta all’idea di specializzarsi nel giro di due anni e mezzo e firmare un contratto con un importante studio legale per uno stipendio sostanzioso. Il governo concedeva prestiti a pioggia agli studenti, li poteva chiedere chiunque; okay, si sarebbe laureato con una valanga di debiti, ma niente che non potesse liquidare in cinque anni. Secondo lui, “investire su di sé” indebitandosi era perfettamente logico, perché era garanzia della futura capacità di guadagno.
Mark aveva abboccato e aveva cominciato a studiare per il test di ammissione. Aveva ottenuto un mediocre punteggio di centoquarantasei, ma alla Foggy Bottom non ci avevano fatto caso; così come non avevano fatto storie per il suo scarno curriculum universitario e la sua anemica media di 2,8. La FBLS lo aveva accolto a braccia aperte e la sua richiesta di prestito era stata rapidamente accettata: ogni anno sessantacinquemila dollari passavano dal dipartimento dell’Istruzione alla Foggy Bottom. Ora, a un solo semestre dalla fine, Mark si trovava davanti agli occhi la triste realtà: si sarebbe laureato con un debito complessivo, tra college e scuola di legge, di duecentosessantaseimila dollari interessi compresi.

Un altro problema era il lavoro. L’offerta non era così ricca come aveva sentito dire, e il mercato non era dinamico come reclamizzava la FBLS nelle brochure patinate e sul suo sito, che rasentava la frode. I laureati delle scuole più prestigiose trovavano ancora posizioni con uno stipendio invidiabile. La FBLS, però, non era esattamente prestigiosa. Mark era riuscito a entrare in uno studio di media grandezza specializzato in “rapporti politici”, il che significava in sostanza rappresentare le lobby. Il suo stipendio iniziale non era stato ancora fissato perché il comitato di gestione dello studio si sarebbe riunito solo a inizio gennaio per esaminare i profitti dell’anno precedente e, in base a questi, adeguare le retribuzioni. Nei mesi successivi Mark avrebbe dovuto avere un importante colloquio con la sua “consulente” riguardo al piano di rientro dal debito e al modo in cui pagare l’intera cifra. La consulente si era già detta preoccupata del fatto che Mark non sapesse quanto avrebbe guadagnato. Anche lui era preoccupato, soprattutto perché allo studio non si fidava di nessuno. Per quanto cercasse di raccontarsela, sapeva di non essere in una botte di ferro.
Un altro problema era l’esame da avvocato. A causa dell’elevato numero di candidati, il test a Washington era uno dei più difficili del paese, e i laureati della FBLS lo fallivano con percentuali allarmanti. Anche in questo caso, le scuole più prestigiose della città andavano meglio. L’anno prima gli studenti della Georgetown avevano raggiunto una media del novantuno per cento di successi e quelli della George Washington dell’ottantanove per cento. Gli studenti della FBLS si erano fermati a un misero cinquantasei per cento. Per farcela, Mark doveva cominciare a studiare subito e sgobbare per sei mesi.
Il punto, molto semplicemente, era che gli mancavano le energie, soprattutto in quelle fredde, uggiose e deprimenti giornate d’inverno. A volte il debito gli sembrava un blocco di cemento che gli gravava sulla schiena. Camminare era faticosissimo. Sorridere era difficile. Viveva in povertà e il suo futuro, anche con un lavoro, era cupo. E lui era tra i più fortunati. La maggior parte dei suoi compagni di corso aveva lo stesso debito, ma non un lavoro. Guardandosi indietro, ricordava lamentele fin dal primo anno; l’umore a scuola peggiorava ogni semestre e i sospetti si facevano sempre più pesanti. Il mercato del lavoro crollava. I risultati dell’esame di abilitazione imbarazzavano tutti. I debiti si accumulavano. Arrivati al terzo e ultimo anno, non era insolito sentire studenti che se la prendevano con i professori in classe. Il preside non usciva mai dall’ufficio. I blog criticavano la scuola e sollevavano domande spinose: “È una truffa?”, “Ci siamo fatti fregare?”, “Dove sono finiti i nostri soldi?”.

A vari livelli, quasi tutti quelli che Mark conosceva pensavano che la FBLS: 1) fosse sotto la media; 2) facesse troppe promesse; 3) chiedesse troppi soldi; 4) incoraggiasse a indebitarsi eccessivamente; 5) ammettesse un mucchio di studenti mediocri a cui non importava niente di studiare legge e che 6) non venivano preparati adeguatamente per l’esame di abilitazione o 7) erano troppo stupidi per superarlo.
Girava voce che le domande di iscrizione fossero crollate del cinquanta per cento. Senza sovvenzioni dallo stato e dai privati, quel declino avrebbe portato a tagli dolorosi, e per una scuola di legge già pessima la situazione non poteva che peggiorare. Ma non era un problema di Mark Frazier o dei suoi amici: dovevano resistere altri quattro mesi, poi se ne sarebbero andati felici e contenti per non tornare mai più.
Mark viveva in un palazzo di cinque piani che aveva almeno ottant’anni e cadeva a pezzi, ma l’affitto era basso e attirava sia studenti della George Washington sia della FBLS. In origine era noto come Cooper House, ma dopo trenta logoranti anni da dormitorio si era guadagnato il soprannome “Coop”, “pollaio”. Gli ascensori non funzionavano quasi mai, così Mark salì a piedi fino al terzo piano ed entrò nel suo angusto e spoglio appartamento di quarantasei metri quadri per cui pagava ottocento dollari al mese. Per qualche motivo, dopo gli esami e prima delle vacanze, aveva fatto le pulizie e quando accese le luci notò con soddisfazione che era come l’aveva lasciato. E perché non doveva essere tutto in ordine? Il padrone di casa non si faceva mai vedere. Appoggiò le valigie e si stupì della quiete. Di solito, tra i gruppi di studenti e le pareti sottili, c’era sempre baccano: stereo, televisioni, litigi, scherzi, partite a poker, risse, chitarre, persino il trombone del nerd al quarto piano che faceva tremare l’intero edificio. Ma non quel giorno. Erano ancora tutti a casa a godersi le vacanze, e nei corridoi c’era un silenzio inquietante.
Dopo mezz’ora si annoiò e uscì. Mentre camminava lungo New Hampshire Avenue, con il vento che si infilava nella giacca di pile sottile e sotto i vecchi pantaloni color cachi, decise di svoltare sulla Ventunesima e fermarsi a vedere se la FBLS era aperta. In una città in cui non mancavano orribili edifici moderni, il palazzo che ospitava la scuola riusciva a distinguersi per la sua bruttezza. Risaliva al dopoguerra ed era rivestito per tutti i suoi otto piani di scialbi mattoni gialli disposti in modo sfalsato: il tentativo fallito di un architetto di fare qualcosa di originale. Un tempo c’erano degli uffici, poi, senza troppe cerimonie, nei primi quattro piani i muri erano stati abbattuti per fare posto a strette aule universitarie. Al quinto piano c’era la biblioteca, un ampio dedalo rimodernato zeppo di libri che nessuno sfogliava e copie di ritratti di giudici e giuristi sconosciuti alle pareti. Al sesto e al settimo piano c’erano gli studi dei professori, mentre all’ottavo, il più lontano possibile dagli studenti, c’era l’amministrazione, con il preside perennemente rintanato nell’ufficio d’angolo dal quale non usciva mai.
La porta d’ingresso era aperta e Mark entrò nell’atrio deserto. Mentre si godeva il tepore, come sempre trovò quel posto deprimente da morire. A una parete era appesa un’enorme bacheca piena di avvisi, comunicazioni e offerte imperdibili di ogni genere. C’erano poster patinati che reclamizzavano l’opportunità di studiare all’estero e il solito assortimento di annunci scritti a mano per libri, biciclette, biglietti, appunti dei corsi, ripetizioni e appartamenti in affitto. L’esame di abilitazione incombeva sulla scuola come una nuvola nera e c’erano manifesti che decantavano l’eccellenza di alcuni corsi preparatori. Se Mark avesse cercato un po’ meglio magari sarebbe saltata fuori qualche nuova occasione di lavoro, ma nel corso dell’anno erano diventate sempre più scarse. In un angolo vide le vecchie brochure che pubblicizzavano altri prestiti studenteschi. In fondo all’atrio c’erano i distributori automatici e un piccolo bar, ma durante le vacanze era tutto chiuso.
Si lasciò cadere su una poltrona di pelle malconcia e si abbandonò alla tetraggine di quel luogo. Era una vera scuola o solo l’ennesimo diplomificio? La risposta era sempre più chiara. Quanto avrebbe voluto non aver mai varcato la soglia quando era ancora un ingenuo studente del primo anno. Adesso, quasi tre anni dopo, era sommerso da debiti che non sapeva come ripagare. Se c’era una luce in fondo al tunnel, non riusciva a vederla.
Tra l’altro, perché chiamare una scuola “Foggy Bottom”? Perché, invece di intitolarla a un personaggio celebre, chiamarla “angolo nebbioso” come il quartiere di Washington in cui si trovava? Come se il percorso di studi non fosse già abbastanza cupo, vent’anni prima un genio l’aveva battezzata con un nome che trasmetteva ancora più squallore. Quel tizio, buonanima, aveva venduto la FBLS ad alcuni investitori di Wall Street che possedevano una sfilza di scuole di legge note per i profitti altissimi e per non dare un peso particolare al talento.
Come funziona la compravendita delle scuole di legge? Mistero.
Mark sentì delle voci e uscì in fretta. Percorse New Hampshire Avenue fino a Dupont Circle, e si infilò da Kramer Books per un caffè. In città si spostava sempre a piedi. Nel traffico, la Bronco procedeva a scatti e si spegneva, così la teneva parcheggiata dietro il Coop, sempre con le chiavi nel cruscotto. Purtroppo nessuno aveva ancora avuto la tentazione di rubarla.
Dopo essersi riscaldato un po’, si diresse verso nord a passo svelto per sei isolati lungo Connecticut Avenue. Lo studio legale Ness Skelton occupava diversi piani di un palazzo moderno vicino all’Hinckley Hilton. L’estate precedente Mark era riuscito a farsi dare uno stage accettando una paga inferiore a quella minima. Gli studi importanti usavano i tirocini estivi per attirare gli studenti più in gamba con la lusinga della bella vita: poco lavoro, consegne semplicissime, biglietti per le partite di football e inviti alle feste prestigiose negli splendidi giardini dei ricchi soci. Una volta sedotti, i ragazzi firmavano il contratto e subito dopo la laurea finivano nel tritacarne della settimana lavorativa da cento ore.
Da Ness Skelton non era così. Con soli cinquanta avvocati, era tutt’altro che uno studio importante. Tra i suoi clienti c’erano associazioni di categoria – Forum dei produttori di soia, Lavoratori delle poste in pensione, Comitato del manzo e dell’agnello, Appaltatori nazionali dell’asfalto, Macchinisti disabili – e diversi fornitori della Difesa, tutti con un bisogno disperato della loro fetta di torta. La competenza dello studio, se mai ne aveva una, era mantenere i rapporti con il Congresso. Gli stage estivi erano concepiti più per sfruttare manodopera a basso costo che per attirare studenti brillanti. Il lavoro mandava fuori di testa, ma Mark aveva stretto i denti e sopportato. Alla fine dell’estate, quando gli era stata proposta una specie di posizione appena superato l’esame di abilitazione, non aveva saputo se piangere o festeggiare. In ogni caso aveva accettato al volo l’offerta – sul piatto non c’era altro – ed era orgogliosamente diventato uno dei pochi studenti della FBLS con un futuro. Per tutto l’autunno aveva timidamente insistito con il suo supervisore per definire i termini dell’impiego, ma senza risultati. Forse c’era una fusione in vista, forse una scissione. Di cose in vista potevano essercene un mucchio, ma di sicuro non un’assunzione.
Allora aveva pazientato. Pomeriggi, domeniche, vacanze, ogni volta che si annoiava si fermava allo studio, sempre con un grosso sorriso finto e la voglia di sgobbare e dare una mano a sbrigare il lavoro noioso. Non era chiaro se avrebbe portato qualche beneficio; di certo, male non faceva.

Il suo spervisore si chiamava Randall, lavorava lì da dieci anni ed era sul punto di diventare socio, dunque era sotto pressione. Un associato di Ness Skelton che dopo tutto quel tempo non diventava socio veniva pacatamente messo alla porta. Randall si era laureato alla George Washington, che quanto a prestigio in città era un gradino sotto la Georgetown ma diversi sopra la Foggy Bottom. La gerarchia era chiara e rigida, e i suoi più accaniti difensori erano proprio gli avvocati della George Washington: detestavano essere guardati dall’alto in basso dai colleghi della Georgetown e guardavano con sdegno anche maggiore quelli della FBLS. L’intero studio puzzava di cricche e snobismo e spesso Mark si chiedeva come diamine fosse finito lì. C’erano anche due soci usciti dalla FBLS, ma erano così impegnati a prendere le distanze dalla loro vecchia scuola che non avevano tempo di aiutarlo. Anzi, sembravano ignorarlo più degli altri. Mark aveva spesso sussurrato tra sé: «Che strano modo di gestire uno studio legale». Poi però aveva pensato che ogni professione ha le sue caste. Era troppo preoccupato di salvarsi la pelle per chiedersi dove avessero studiato legge gli altri tagliagole. Aveva già troppi problemi.
Aveva mandato un’e-mail a Randall per dirgli che sarebbe passato nel caso ci fosse qualche lavoretto da fare.
Randall lo salutò con un brusco: «Già qui?».
Sì, e le tue vacanze sono andate bene? È bello rivederti. «Ne avevo piene le palle delle feste. Come va?»
«Due segretarie sono a casa con l’influenza» rispose Randall. Indicò una pila di documenti alta trenta centimetri. «Me ne servono quattordici copie ordinate e pinzate.»
“Okay, si torna in sala fotocopie” pensò Mark. «Certo» disse, come se non vedesse l’ora di cominciare. Scese nel seminterrato in una cella zeppa di fotocopiatrici e trascorse le tre ore successive a fare un lavoro stupido per il quale lo avrebbero pagato una miseria.
Quasi gli mancavano Louie e il suo braccialetto elettronico.

L’autore, John Grisham

Scrittore statunitense. Laureatosi in legge, per anni è stato avvocato penalista. Ha ricoperto incarichi politici come membro della Mississippi House of Representatives.
Con il romanzo Il socio (Mondadori 1992, adattato per il cinema nel 1993 da Sydney Pollack), ha rinnovato le fortune del genere legal-thriller, o più precisamente del courtroom-thriller, cioè il romanzo giallo d’ambientazione giudiziaria.