La veglia (seconda parte)

La veglia (seconda parte)
di Luisa Paglieri

 

Tutto andò come la vecchietta filatrice aveva previsto.
Agnese stava cavalcando da qualche giorno quando il paesaggio si modificò diventando aperto e collinoso, quasi montano, mentre il bosco si diradava sempre più lasciando il posto ad una prateria. Apparve, in cima ad una collinetta erbosa, un castello le cui mura parevano in parte argentee come se i materiali di costruzione fossero stati arricchiti, inframezzati, da qualche mattone argentato. Agnese allora discese da cavallo e diede una leggera pacca sul fianco dell’animale dicendogli: “Va’ e raggiungi la casa della vecchia filatrice! Lei avrà cura di te.”
L’intelligente animale si voltò, le fece una rapida carezza con il muso e trottò via ubbidiente.
Calava ormai la sera.
Improvvisamente Agnese si sentì stanchissima dopo la cavalcata e le troppe emozioni di quelle terribili giornate e prima di affrontare la seconda metà del viaggio si sdraiò sotto un albero dall’aria protettiva (perché ci sono anche alberi cattivelli, eh!), si coprì alla meglio con il suo pesante mantello e si addormentò.
Fece alcuni sogni veramente strani.
Dapprima le apparve in sogno il pesce che lei aveva risparmiato. Le disse: “Ti sono grato! Noi facciamo parte del popolo delle acque e ti offriamo un regalo.” E così dicendo le aprì, anzi le spalancò davanti agli occhi, un impalpabile svolazzante mantello, intessuto di tutte le cangianti sfumature dell’acqua, dal verde delle alghe all’azzurro dei laghi, al bianco delle cascate, con filini argentei che baluginavano nella stoffa come gli spruzzi di un torrente. Il tessuto danzò leggero nell’aria davanti agli occhi della ragazza che mormorò un grazie prima che il pesce sparisse.
Ma ecco che apparve una bella ape dorata. “Bzzzz, disse l’ape, noi siamo il popolo dei fiori e ti offriamo un regalo” e le sventolò dinnanzi agli occhi una tunica che era fatta di tutti i colori delicati dei fiori di campo e di montagna. Era ricamata con sottili filini d’oro brunito, il colore del miele. La tunica volava lieve nell’aria. Agnese ringraziò e l’ape scomparve.
Apparve quindi un uccello che cinguettando le disse: “Noi siamo il popolo dell’aria e, sebbene non possiamo offrirti doni appariscenti, ti diamo questo…” E con l’aluccia le porse una penna. “Quando vorrai fuggire da un grave pericolo, agita la penna ed abbi fiducia!” Agnese ringraziò il pennuto e poco dopo aprì gli occhi, destandosi.
Si girò su un fianco e… meraviglia! I tre doni erano lì, come deposti da una mano gentile accanto a lei.
Era così ansiosa di arrivare al castello e avere notizie di Airaud che si alzò in fretta, prese i doni (mantello e tunica erano di stoffe così sottili che stavano ciascuno in un pugno, la penna non dava problemi) e si avviò. Si chiedeva come avrebbe fatto ad entrare e l’unica cosa che riuscì a escogitare fu il trucco dei gioielli, che già aveva sperimentato per farsi raggiungere dal messaggero del suo innamorato: aveva qualche gingillo d’oro in tasca (quando era partita li aveva portati con sé per usarli in caso di necessità ) e decise di offrirli in vendita alla signora del castello, facendosi passare per una mercantessa.
Avvicinandosi alla meta però, le venne in mente che il suo aspetto non era dei migliori e così decise di cambiarsi. Si lavò in un ruscelletto e indossò la veste donatale dalle api, stando ben attenta a non perdere il filo che era legato al suo polso.
Infine iniziò a percorrere il tratto più ripido che la portava verso il castello.
Le successe una cosa strana che era successa anche ad Airaud ossia si sentì trasportare in un’aria diversa ed ebbe l’impressione di proseguire come se qualcosa (un vento?) la spingesse. Non diede però importanza alla cosa e proseguì decisa.
Non fu molto facile farsi aprire da parte delle guardie del castello ma vi riuscì con grandi insistenze. Pareva emanare da lei (e dalla meravigliosa veste) una specie di fascino che indusse gli uomini ad aprirle.
Le venne incontro una domestica che, vedendola così ben vestita, andò a chiamare la sua signora ossia Tchesalina.
Quest’ultima era seccata. “Perché l’avete lasciata entrare?” sibilò alla domestica. Tuttavia quando vide Agnese mostrò un certo interesse.
“Chi siete?” Le chiese.
“Vendo gioielli… la mia famiglia è nobile ma impoverita ed ho bisogno di denaro…”
Tchesalina diede un’occhiata distratta ai gioielli e li giudicò roba piuttosto convenzionale, ordinaria. “Non mi interessano…” disse “ma mi interessa l’abito che portate. Me lo vendereste?” “Lasciatemi pensare un attimo…” rispose Agnese.
Tchesalina rispose: “Pensateci… per il momento vi invito a pranzo…”
Fece un cenno ad una anziana donna che era la sua consigliera e questa scortò Agnese in cucina. Tchesalina non voleva infatti che la sedicente mercantessa (tipo sospetto) si mescolasse con la sua piccola corte… ossia Airaud e le persone che lo intrattenevano.
Agnese moriva di fame: per qualche giorno aveva mangiato solo pochi frutti. Tuttavia, mentre percorreva i corridoi dietro alla sua lenta accompagnatrice, gettò un occhio attento in giro e ad un certo punto, attraverso uno spiraglio di pochi centimetri (una porta era avvicinata allo stipite ma non chiusa) vide qualcosa di rosso. Quel punto di rosso le ricordava qualcosa e aguzzò la vista: la persona che indossava quell’indumento era Airaud. Era lui di sicuro e indossava il vestito scarlatto che gli aveva visto addosso il giorno della fuga.
Ne fu molto colpita ma riuscì a dominarsi. Non poteva di certo tentare di fargli un cenno o di chiamarlo sia pure sommessamente, si sarebbe scoperta. Tirò dritto stringendo le labbra.
In cucina gustò cibi e bevande che, trovandosi già sul tavolo e non essendo stati preparati apposta per lei, le sembrarono affidabili.
Poi più tardi (ormai imbruniva) fu ricondotta in presenza di Tchesalina.
“Allora?” Fece costei che non vedeva l’ora di impossessarsi della veste di Agnese per poterla sfoggiare davanti ai suoi amici e soprattutto davanti ad Airaud “Avete pensato bene? Quanto volete per il vostro abito?”
Un’ ispirazione strana attraversò la mente di Agnese. Quasi non fosse lei ma un’altra persona a parlare espresse la sua incredibile proposta: “Ve lo darò per niente se mi lascerete dormire una notte nella stanza di quell’uomo alto e biondo, vestito di rosso, che ho intravisto in una sala! Mi ricorda un mio antico amante, ci amavamo da ragazzi ma ora è morto! Vorrei vedere quell’uomo, potergli parlare, è il ritratto del mio amore perduto!”
Tchesalina impallidì per la rabbia e la gelosia. Era lì lì per lanciare una fattura alla nuova arrivata ma la sua anziana consigliera la tirò per la manica. “Devo dirvi qualcosa!” Sussurrò.
Tchesalina si voltò e le due confabularono per pochi momenti.
“Lasciate perdere, mia signora” disse l’anziana dama “non lanciate incantesimi! Potrebbe essere protetta! Ho visto che porta qualcosa, un filo, al polso! Invece lasciate fare a me e non succederà nulla!”
Tchesalina si rivolse di nuovo ad Agnese.
“Una richiesta singolare mia cara! E alquanto audace per una damigella giovane come voi! ma via, io non sono donna da proibire i piaceri degli altri o per preoccuparmene! Ad una data ora sarete accompagnata nella camera di quel cavaliere e gli parlerete a vostro agio! Ve la vedrete con lui, io non ho nulla da dire! Io non mi impaccio di queste cose.”
Dopodichè ad Agnese non rimase altro che attendere in una stanzetta, piena di ansia nonché di vergogna per aver fatto quella richiesta così audace. A ripensarci, aveva le guance in fiamme. Ma chiedere un semplice colloquio con il giovane avrebbe insospettito ancor di più Tchesalina. Certo, la sua era una richiesta poco consueta e molto immodesta e se ne vergognava. Ma non era forse già la moglie di Airaud, visto che si erano giurati fede eterna? E come può essere immodesta un’azione ispirata dal vero amore?
Ma l’anziana consigliera della maga l’aveva pensata bella. Sapete cosa aveva escogitato? Per prima cosa, disse ad Airaud che lo trovava pallido e smunto e poi gli diede da bere una coppa di vino caldo e speziato, così, per tirarsi su prima di andare a dormire, come disse. Solo che lei ci aveva messo dentro un filtro magico che faceva dormire così profondamente che uno, anche fosse stato preso a schiaffi o ammollato da un getto d’acqua fresca in faccia, non si svegliava. Tchesalina fu molto soddisfatta della trovata e lodò la sua consigliera, quella impicciona della venditrice non avrebbe potuto parlare con Airaud né tanto meno mettersi ad amoreggiare con lui! Più tardi Agnese fu accompagnata dall’anziana dama lungo un corridoio piuttosto elegante, in cui si trovavano alcuni mobili e certe elaborate cassepanche. Su un alto baule troneggiava un ampio specchio dalla cornice dorata. Le due donne raggiunsero la porta di una stanza posta alla fine del corridoio medesimo. La dama aperse appena la porta e disse ad Agnese: “Buona notte mia cara, riposate bene e ricordate che domani all’alba dovrete presentarvi alla mia signora e cederle la veste.” Quindi spalancò uno dei battenti, introdusse Agnese e subito, con un fruscio di sete, si ritirò. Agnese, con una candela in mano, entrò nella stanza che le apparve davvero elegante. I colori dominanti, per quel che si poteva scorgere, erano il rosso cupo e il blu, vi erano mobili di legno scuro, cuscini e tappeti. Tende molto pesanti coprivano le finestre. Lei si diresse verso l’ampio letto dalle ricche e spesse cortine sul quale riposava una persona.
Vide subito che era Airaud profondamente addormentato e lo scosse gentilmente. Ma lui non si svegliò. Lo scosse più forte, lo chiamò, ma senza risultato. Eppure respirava tranquillo e le sue guance erano rosee, non era né morto né malato.
La ragazza era disperata. Aveva fatto tutto il possibile per incontrarsi con lui da sola al fine di potergli parlare e concertare la fuga e non era servito a un bel nulla.
Non le restò altro che stendersi accanto ad Airaud e dormicchiare per un po’. Ma non riusciva a dormire profondamente, ogni tanto si svegliava e riprovava a scuotere il giovane o a parlargli, senza mai ottenere un benché minimo successo.
All’alba si levò, pesta e infelice, gli occhi circondati di un alone violaceo, e lasciò la stanza. Si era tolta il bellissimo vestito datole dal popolo delle api e aveva rimesso il suo semplice abito da viaggio. Per tirarsi un po’ su di morale però si era gettato sulle spalle a mo’ di sciarpa il mantello, regalo del popolo delle acque.
Tornata nel corridoio venne condotta da un’ancella al cospetto di Tchesalina che la attendeva con un maligno sorriso sulle labbra tirate.
Agnese la salutò e le porse la veste. Nel far questo però il mantello si aprì e scivolò sulle spalle, spalancandosi leggero e danzante e rivelando la sua meravigliosa bellezza.
Il cattivo sorriso di trionfo sul viso di Tchesalina si tramutò in un’espressione di rabbiosa invidia. “Che bel mantello” disse a denti stretti, come ammettendo a malincuore la realtà, “mi vendereste almeno questo?”
“Ve lo regalerò se mi concederete di trascorrere ancora una notte nella stanza del cavaliere con cui ho passato questa” rispose Agnese a cui non pareva vero poter fare un altro tentativo. Le due si squadrarono per un momento: era un duello di caratteri.
“E sia!” Disse alfine Tchesalina “ma la giornata di oggi la passerete reclusa in un salottino che vi indicherò e non ve ne andrete in giro a disturbare i miei ospiti… con le vostre vendite di gioielli!” aggiunse maligna perchè il sottinteso era ben altro.
Agnese dovette accettare e quella sera (dopo una giornata spesa tra la noia, l’impazienza e l’ansia che aveva cercato di alleviare dormendo un poco) per la seconda volta fu condotta nella stanza di Airaud.”
A questo punto Gughi si concesse una pausa che adoperò per prender fiato e per gustare ancora qualche robusta sorsata di barbera. Ma facendogli l’uditorio richieste pressanti perché proseguisse, dopo pochi minuti di silenzio si degnò di continuare.
“Ma cosa credete che avvenisse nel frattempo nelle famiglie dei due fuggitivi?” disse e girò lo sguardo sui visi perplessi che lo circondavano.
“Ve lo dirò io! La madre della giovane Avogadro si accorse subito che Agnese era sparita (ed era sparito il suo cavallo, come la informò un mozzo di stalla) ma non volle allarmare tutto il clan familiare e quindi decise di aspettare: dopo tutto, la ragazza, cui poteva esser presa qualche mattana, sarebbe probabilmente tornata indietro dopo poche ore.
E così la dama non fece sapere nulla al proprio padre che era il capo della famiglia Avogadro e che, nonostante l’età avanzata, era un uomo forte e coraggioso. Il vecchio Uberto Avogadro abitava d’altronde in una sua residenza poco distante e quindi non ne poteva saper nulla. Anzi, proprio il giorno dopo gli venne l’idea di andare a caccia e quindi si avviò a spron battuto verso la campagna montando il suo bellissimo stallone.
Era una bella giornata e l’uomo, con il suo falcone, si stava godendo la passeggiata solitaria avendo seminato parecchio tempo prima il solito codazzo di amici che generalmente lo accompagnavano nelle partite di caccia.
Arrivò ad una radura che giudicava promettente. Doveva esser pieno di lepri da quelle parti! mentre avanzava a trotto deciso di colpo il cavallo s’impuntò e non volle proseguire. L’uomo seccato smontò e si guardò intorno. Se avesse intravisto la selvaggina sarebbe rimontato a cavallo velocemente oppure avrebbe liberato il falcone, a seconda delle circostanze.
Avanzò nella radura sotto il sole, passo passo, quando … improvvisamente piombò nel buio. Il mondo era precipitato nell’oscurità, gli parve, per giunta lui aveva ricevuto un discreto colpo sul naso ed era atterrato sul fondoschiena in malo modo.
Ma dov’era finito mai? Si chiese mentre la testa gli girava, era forse finito all’inferno? Oppure c’era una eclissi improvvisa, forse annunciatrice della fine del mondo? Era buio pesto e per giunta lui aveva un male tremendo al naso come se avesse ricevuto un pugno sul medesimo.
Dopo i primi momenti di stordimento si rese conto di ciò che era successo: era caduto in una buca, una trappola messa per gli animali selvatici. E aveva battuto il viso contro una sporgenza. Ora stava seduto sul fondo di quella maledetta buca.
Che situazione seccante! Ora capiva perché il cavallo non aveva voluto proseguire, sicuramente si era accorto che qualcosa nel terreno non gli tornava. Di certo avevano fatto una fossa e l’avevano coperta con sterpi ed erbe e l’intelligente animale se ne era accorto. Accidenti, perché i cavalli non potevano parlare?
Alzò lo sguardo verso l’alto. Tra gli sterpi che formavano la copertura della buca e che lui aveva smosso parzialmente cadendo, filtrava un po’ di luce. Abbastanza per rendersi conto che la trappola era profonda e che non ce l’avrebbe fatta a uscirne da solo. Non restava che urlare, urlare e chiedere aiuto. Gridò a voce spiegata ma nessuno se ne accorse. Dopo un quarto d’ora di urla era praticamente afono e nessuno era venuto. E così, rifletteva amaramente, sarebbe restato molte ore, magari dei giorni in quella maledetta fossa! Ah, come avrebbe voluto avere per le mani quel bestione di contadino che aveva preparato la trappola! L’avrebbe spellato vivo!
Perché poi dovevano preparare ‘ste maledette trappole, si chiese. Forse erano per un orso, a volte infatti qualcuno di quegli animali arrivava nei pressi dell’abitato e ammazzava qualche capo di bestiame. Oppure poteva essere stato un bracconiere che voleva acchiappare qualche cervo. I suoi cervi! Pensò con rabbia. E poi chissà dov’erano quei buoni a nulla dei suoi compagni di caccia. Forse si erano dispersi in giro ed erano andati nelle cascine a bere un bicchiere e a corteggiare qualche contadinotta. Un mucchio di idioti inutili!
Decise di riposarsi un po’ e di bere qualcosa perché la gola gli bruciava. Il grosso delle provviste era rimasto in una bisaccia sul cavallo. Per fortuna aveva con sé una fiaschetta di vino che sua moglie (donna incomparabile, pensò) gli aveva cacciato in tasca. Almeno non sarebbe morto di sete. Estrasse dalla tasca la bottiglietta e bevve ben bene. E poi, stressato dalla situazione, si assopì. Ma non per molto, perché le sue disgrazie non erano finite. Infatti ad un certo punto i cieli si apersero ( o almeno così gli sembrò) e i corpi celesti gli piombarono addosso.”
“Ma cos’era accaduto ancora???” chiese uno dei Folletti.
Gughi rispose: “Era successo questo. Quando in casa Tizzoni si accorsero della sparizione del giovane Airaud lì per lì non ci diedero molto peso. Suo padre Giorgio era un tipo mite (diventava una belva solo se gli parlavano degli Avogadro) ed era soprattutto molto tollerante: se un giovanotto passava una notte o due fuori di casa che male c’era? Amici, dadi, donne, non lo facevano tutti i rampolli delle famiglie nobili?
Decise quindi di non farne parola a suo fratello maggiore Riccardo che era il capo della famiglia da quando il loro vecchio genitore, poco tempo prima, aveva lasciato questo mondo.
Riccardo, che abitava in una sua tenuta fuori le mura, quel giorno si alzò di buon’ora per andare a caccia.
Era a cavallo, accompagnato da due suoi amici. Ad un certo punto, vide un bellissimo daino. Il mantello sembrava dorato e le corna poi, strano ma vero, brillavano come oro.” Gughi fece una pausa significativa e girò lo sguardo sull’ uditorio. Molti dei presenti ammiccarono, avevano capito benissimo chi fosse il daino che si faceva inseguire così abilmente. Lasciando indietro gli altri cacciatori, Riccardo infatti seguì l’animale, il quale si inoltrò nella boscaglia. Ad un certo punto, la vegetazione divenne così fitta che l’uomo dovette scendere e proseguire a piedi.
Scese e vide balenare il chiaro mantello del daino nella radura, ma quando lanciò una freccia in quella direzione l’animale era scomparso per riapparire altrove, in un altro punto del prato, e la cosa si ripeté varie volte.
Frastornato, l’uomo si mise a correre verso la direzione che gli parve giusta… ma di colpo il piede gli mancò e a lui sembrò di essere inghiottito dalla terra.
La caduta fu attutita perché il suo corpo urtò qualcosa di relativamente morbido.
Era ovviamente il corpo di Uberto che si era assopito, risvegliandosi quando dal cielo cominciarono a cadere corpi pesanti.
“Che succede ora?” urlò Uberto svegliandosi di soprassalto e accompagnando la frase con una solenne bestemmia.
L’altro non rispose, cominciava appena in quel momento a capire di essere finito in una buca. “Chi ***siete voi?” ripeté Uberto, “che ci fate qui ?”
“Sono… caduto” balbettò Riccardo, articolando a stento le parole.
Uberto rizzò le orecchie, la voce non gli suonava nuova!
“Ma possibile che non si possa stare in pace un momento neppure nel ventre della terra?” disse ancora.
“Se credete che sia divertente cadere qui! Non l’ho fatto per spasso!” Rispose l’altro seccato ma nuovamente battagliero (evidentemente si stava riprendendo). “Ma si può sapere chi diavolo siete?” Borbottò Uberto.
“Sono Riccardo dei Tizzoni”, disse l’altro con una certa fierezza.
“Siete…?” Uberto quasi si strozzò “è mai possibile che con tutti posti che ci sono al mondo voi dobbiate capitare qui a raddoppiare la mia disgrazia!” disse esasperato. “La vostra…?” disse l’altro sdegnato.
“Sì, maledetto d’un ghibellino. Io sono Uberto Avogadro!” “Maledetto? badate a voi, signore! E al vostro collo!” “Cane di un Tizzoni!”
“Serpente viscido di un pretaiolo che non siete altro!” “Belva di un ghibellino senza Dio!”
Continuarono per un po’ su quel tono e poi, perso il lume degli occhi, vennero alle mani. Si batterono come due giovanotti, benché fossero limitati dallo spazio davvero angusto.
Alla fine, ansanti, stremati e contusi, dovettero smettere. Uberto parlò dopo un lunghissimo silenzio ostile.
“Non credo serva batterci, Riccardo…”
“No, Uberto, cerchiamo di uscire di qui, per prima cosa.” “Ho già provato, non si può.”
“Ma eravate solo… adesso, in due, sarà più facile.” “E come? “
“Ascoltate, il più pesante di noi aiuta l’altro a salire fino al bordo. L’altro striscia fuori, poi prende una pertica, un grosso ramo o qualche altra cosa, lo sporge al primo che si attacca e viene tirato su.” Uberto obiettò che quello che usciva per primo poteva andarsene e lasciare l’altro nei guai. L’obiezione era fondata e i due si accordarono di giurare solennemente sul loro onore di cavalieri di non fare una cosa simile.
Dopo molto dibattere la cosa fu approvata, Uberto si mise vicino alla parete della buca e con sua grande umiliazione l’altro gli salì sulle spalle e raggiunse il bordo della buca, poi puntellandosi sulle braccia riuscì a malapena a strisciare fuori. Prese poi un lungo e robusto ramo e lo porse a Uberto che tendeva le braccia. Uberto lo afferrò e Riccardo iniziò a tirare. Ma il ramo che era molto secco si spezzò. Uberto, rinnovando le sue imprecazioni colorite, non poté uscire. Altri tentativi non ebbero miglior successo.
Poi però, passo passo, il cavallo di Riccardo si avvicinò e al Tizzoni venne in mente che doveva esserci una corda nella bisaccia che stava appesa al fianco dell’animale. C’era, infatti, e finalmente il salvataggio fu compiuto.
I due uomini, finalmente in salvo, scoppiarono in una gran risata di sollievo e fecero per abbracciarsi.
Però si frenarono, limitandosi a qualche reciproca manata amichevole sulle spalle. Infine si avviarono, alquanto malconci e male in gambe, verso la boscaglia, sperando di recuperare anche il cavallo di Uberto che infatti pascolava poco lontano.

CONTINUA

 

L’AUTRICE

Luisa Paglieri è nata e risiede a Torino ed è laureata in Lettere e in Lingua e letteratura inglese. E’ autrice di parecchi racconti storici e fantastici che sono apparsi in svariate antologie. Ha scritto, in italiano e in inglese, saggi su Tolkien, Lewis, Shakespeare, sulla letteratura fantastica e sulla letteratura medievale pubblicati da vari editori, italiani e stranieri (Il Cerchio, Messaggero, Brepols, Walking Tree e altri).  Ha curato diverse traduzioni ed ha collaborato con riviste e periodici cartacei e on line. Ha partecipato a convegni e seminari presso alcune università e ha tenuto conferenze su vari argomenti storici e letterari, soprattutto sul genere fantastico, sul mito e sul folklore. Di recente pubblicazione è un romanzo di urban fantasy (Fantaxy, Marcovalerio editore). Con altri autori ha scritto un testo sulle creature fantastiche (Creature dell’impossibile, Edizioni Della Vigna) che è stato finalista per il Premio Italia.