Società multietnica

SOCIETA’ MULTIETNICA

di Sariel Ilupagy

 

 RACCONTO CON DOPPIO FINALE.

TU QUALE SCEGLI?

 

Dicono che Trieste sia una città elegante, mitteleuropea, a misura d’uomo, ecc. Ma dovreste vedere dove abito io! Un quartiere nuovo, squallido, casermoni progettati da qualche infame nipotino di Le Corbusier. Del resto, in questo anno di grazia 2008 cosa può avere una insegnante quasi quarantenne, decorosamente (e decisamente) squattrinata? Ma non mi lamento più di tanto. Almeno, l’ambiente del mio liceo non è male, molto familiare, quasi simpatico. Si sente parlare il triestino come l’italiano e fra noi colleghi c’è una certa complicità, tanto è vero che esco spesso con alcuni di loro.
Devo giusto andare a scuola ora. Mi calco il basco sui capelli (c’è vento, tanto per cambiare) ed esco quasi correndo. Ogni tanto mi specchio nelle vetrine. La mia immagine non mi dispiace, snella e sbarazzina, capelli dritti come spaghetti, ciuffi di qua e di là che non stanno mai come voglio io, faccia pallidina e lenticchiosa (odio l’abbronzatura).

*

Gran serata in discoteca ieri. Con la mia amica Clara, qualche collega e amici-di-colleghi.
Clara è un po’ sopra le righe come sempre. A volte frequenta dei tipi rozzi, anzi “rozzoni”, come dico io. Ieri ci ha propinato due slavi (un certo Mladen e un tal Janko) che erano un capolavoro, se non fosse che erano anche un po’ inquietanti. Mladen era chiaramente il “capo”, un tipo con i soldi che sfoggiava un’ eleganza caricata, greve, da burino. L’altro era evidentemente un subordinato o una specie di “spalla”: altissimo e muscoloso, sembrava quasi una guardia del corpo.
Trieste è piena di questi soggetti da discoteca (spesso sedicenti uomini d’affari, in realtà trafficoni da quattro soldi al limite della correttezza) ma non si tratta della vecchia popolazione slava che c’è sempre stata (Trieste era la città del sì, del ja e del da), bensì di una fauna nuova, arrivista, vorace, di cui non so bene cosa pensare.
Mladen è uno di quelli che ostentano i loro soldi, ordinano bottiglie su bottiglie, vogliono fare favori a tutti, proteggerli, però hanno un che di sprezzante, non so, di minaccioso. Non sopporto il suo tono di protettore, che razza di favore mi vuol fare? (Magari spezzare una gamba ad un mio nemico?).
Dice che è un uomo d’affari ma a me sembra uno squalo, ma dove li trova Clara questi tipi!
Alla fine della serata se ne vanno su di una grossa auto, volgare come gli arricchiti, che romba via insolente.
Si è fatto molto tardi, troppo.
Che sollievo rientrare a casa mia e rivedere le cose a me familiari.

*

E’ passata una settimana, monotona come quasi tutte.
Non ne posso più del mio appartamentino troppo silenzioso. E pensare che quando mi ci sono trasferita mi sembrava chissà che. Forse  perché era il simbolo di una indipendenza conquistata a fatica, dopo una giovinezza sacrificata, con due genitori troppo oppressivi e al tempo stesso assenti.
Per vincere la noia sono di nuovo uscita con Clara e C. (sotto sotto spero ancora di fare l’incontro giusto che mi cambierà la vita anche se ci credo sempre meno).
Oh, ma Clara è proprio recidiva: ha portato di nuovo i due tizi della settimana scorsa.
Devo dire che la preferivo com’era anni fa quando portava a casa mia (e dei miei, ahimè) dei tipi alternativi, dall’aria stropicciata, con l’occhio di chi si è fatto le canne e molto altro. Tipi strafatti che, a parte l’aspetto folkloristico, non m’interessavano, ma purtroppo mi costavano prolungati interrogatori da parte dei miei vecchi.
Adesso invece si è buttata con questi nuovi arrivi (ma perché?).
I due tipi mi hanno fatto una impressione ancora peggiore dell’altra volta, forse perché oggi li ho messi a fuoco con più chiarezza. Mladen sembra senza ombra di dubbio un uomo d’affari improvvisato, senza professionalità né preparazione, e ai limiti del mondo perbene o forse proprio al di fuori di esso.(Clara dice che è nel mercato immobiliare. Brutto palazzinaro volgare, penso io).
Janko è sempre silenzioso, torvo, non dice una parola. Con i capelli biondi tagliati a spazzola e la notevole statura sembra Ivan Drago, il pugile sovietico del film di Stallone. Aiuto.
Mladen, quando mi ha vista, si è sprecato in grandi attestazioni di amicizia: “Chi si rivede!”
Ha una sua gentilezza untuosa, molto balcanica, ma c’è un fondo spietato in questi tipi…
Ho deciso. Non uscirò più con loro.

*

Sono passati pochi giorni di intenso lavoro. Però mica mi lamento. Non avessi i libri, sarei fuori di testa da un pezzo.
Non vedo l’ora che arrivi l’estate. Un bel soggiorno all’estero, con tanto di corso di aggiornamento, è quello che mi ci vuole. Ma l’estate è ancora lontana, purtroppo. E quindi per ora devo restare alla base e fare la solita vita. Almeno ci fosse qualche bel congresso, per andare via un paio di giorni con il benestare del preside. Adoro i congressi. Si conosce gente e si instaurano interessanti contatti umani. Un po’ come un ritiro spirituale. Ma al momento non c’è nulla di commestibile in vista.
Ieri poi (ciliegina sulla torta) incrocio per la strada Mladen. Già, nelle città piccole ci si incrocia di continuo.
Può essere bello, ma qualche volta non lo è. Dopo i soliti convenevoli, il tizio se ne esce con una richiesta formulata in modo indiretto, ma ugualmente sfacciata. Vuole che io chieda ad una mia collega, Paola, di vendergli un certo alloggio nella città vecchia. Dice che Paola ha rifiutato di vendere, ma se io ci metto una buona parola…
La cosa non mi piace per niente. Sbaglio o c’era una sfumatura di minaccia nella sua voce? Probabilmente no, sono io che me lo sogno, ma mi mette in difficoltà con questa richiesta, un bel no è difficile da dire, si passa per maleducati, un sì è una forma di complicità.
Con una scusa taglio corto e me ne vado. Ciao ciao.

*

In questi giorni sono in vena di bilanci esistenziali, attività pericolosissima per donne sole e non più giovani. Difatti non mi sento più giovane e non lo sono. La giovinezza l’ho spesa a ritagliarmi una spazio, a cercare il diritto di esprimermi. Così si sono consumati gli anni giovanili.
E adesso? Sono sola come un chiodo. E l’amore? Beh, non ho avuto l’incontro giusto. Ne ho avuti alcuni sbagliati. In una città piccola (e pettegola) non è difficile trovare qualcuno, ma a volte è molto difficile trovare chi ti mette le ali al cuore.
O forse sei tu che vedi intorno a te un deserto perché un deserto ce l’hai dentro.

*

Paola è una simpatica.
Non è più giovane, è solissima (sentimentalmente), vive con dei vecchi parenti.
Dovrei dirle dell’alloggio e di Mladen? Magari.
La vado a trovare, accenno al problema, la voglio mettere in guardia, ma senza spaventarla.
Forse non sarà così grigia, ma questi nuovi affaristi senza scrupoli mi preoccupano. Non voglio che riceva qualche minaccia o anche solo qualche pressione sgradevole. Lei proprio non se lo merita. Sta con una madre anziana e due zii in un vecchio appartamento pieno di mobili antichi e sbilenchi. Sono persone così dolci, così inoffensive, quando vado a trovarli sono così gentili, le loro voci di anziani, dal marcato accento triestino, mi cullano come una musica, non voglio che vivano qualche momento spiacevole, proprio no. Oh no, loro no!

*

Esco di nuovo con degli amici (ma non più del giro di Clara). Discoteca. Di nuovo?!
Beh, chi non ha un ragazzo (parlo ancora di ragazzi a quasi quarant’anni) non può permettersi di fare la schizzinosa. (O forse dovrebbe? Per non fare una scemenza dopo l’altra? Selezionare gli amici o adattarsi? La grande domanda di tutte le single).
Tuttavia la serata non migliora il mio umore, anzi in fondo mi deprime. Sono contenta di rincasare e di infilarmi sotto le coperte godendomi la mia pace (e dopo aver mandato -garbatamente- a farsi friggere un tizio che credeva di impressionarmi dicendo di essere un chirurgo estetico pieno di grana).

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Oggi riunione scolastica pomeridiana. Non vado a casa a pranzo, vado al bar con i colleghi.
Che barba questi bar. E tutte queste coppie.
Certe colleghe infatti si portano dietro il moroso. Anche Claudia ha un nuovo partner, un ragazzotto di venticinque anni (lei ne ha quarantacinque) che sembra un mio allievo, di quelli pluriripetenti, con la canna facile e i volantini in tasca. Chissà come mai, mi sale un groppo in gola. Sì, mi ricordo anch’io la mia adolescenza poco gratificante e in fondo mai ben risolta.
Un nodo di sentimenti e rimpianti sbatacchia contro il mio sterno. Ma un fondo di buon umore ce l’ho anch’io, eredità di uno dei miei nonni, che era veramente di spirito. Un collega nuovo, un tipo buffo, ci fa ridere tutti e la vita mi sembra di nuovo accettabile. Un tramezzino squisito fa il resto, e ci butto sopra anche un’ “ombra”. L’aria frizzante di questa città conferisce a tutti noi almeno un pizzico di brio.

*

Devo andare a trovare una mia amica malata. Una tipa anzianotta che si dedica alle conferenze e ai circoli culturali, non avendo altro, si può dire. Fa parte di una dozzina di associazioni, tutte piene di donne sole (ma gli uomini soli dove vanno???).
Ho trovato un bel parcheggio, per una volta tanto, ed ho sistemato la carriola per benino.
Torno dopo la visita e scopro che un deficiente mi ha piazzato l’auto di fianco, in seconda fila, in modo tale che non posso uscire.
Mi deprimo. Ma questo cosa crede, che alle cinque del pomeriggio tutto sia calma piatta e nessuno prenda più l’auto fino alla mattina dopo? La rabbia mi monta dentro  perché io mi sforzo di essere corretta anche quando non mi fa comodo e sono invece regolarmente vittima dei prepotenti. Sulla strada e non. Vorrei suonare il clacson, ma mi dà fastidio questo uso improprio di un segnale acustico che dovrebbe essere solo di emergenza. E poi lì davanti c’è una specie di convento che è anche una casa di riposo per anziani e, benché non sia una vera e propria clinica, mi secca disturbare. Non mi resta che aspettare. Magari questo è andato solo a comprare le sigarette, nel qual caso è perdonabile.
Non arriva nessuno e si fa buio. Mi decido a dare un colpetto di clacson non proprio feroce.
Niente. Dovrò chiamare i vigili.
Tiro fuori il telefonino e comincio a fare il numero.
In quel momento mi sento apostrofare a voce alta: “Cosa fai, puttana?”
Un tizio arriva correndo. Deve essere il proprietario dell’auto in seconda fila ed evidentemente ha intuito le mie intenzioni. Bassotto, tozzo, capelli grigi, né giovane né vecchio ma con una faccia banale e volgare. Odioso.
Rimango talmente attonita che non riesco a ribattere (l’ingiustizia mi ferisce sempre profondamente) mentre quello continua ad insolentirmi: un torrente di improperi mi investe. (Non dev’essere nemmeno triestino, a giudicare dall’accento: un perfetto esemplare di volgarità italica post-moderna). Mi salgono le lacrime agli occhi, non so difendermi in questi casi, penso solo che non è giusto, che non ho fatto nulla per meritarmi un attacco così violento e gratuito, che casomai è lui ad essere in torto.
Già altre volte mi sono scoperta incapace di reagire mentre un tizio qualsiasi, specie un automobilista, si arrogava il diritto di offendere pesantemente, senza motivo, una donna sconosciuta. Odio la cattiveria. Non sopporto di essere odiata. Viene fuori il mio fondo di fanciulla orfana (una madre ce l’avevo, ma totalmente distante), di ragazza senza marito. Mi tremano le mani senza anelli.
D’ un tratto, alle mie spalle sento una voce maschile: “Tu fila!” Due parole decise, pronunciate in un italiano incerto. Ma la voce calma e profonda è una di quelle a cui non si può disobbedire. L’odioso omuncolo guarda in su, ammutolisce e batte velocemente in ritirata. Balza sulla sua auto e in un secondo è scomparso.
Mi volto, guardo il mio salvatore, che altri non è se non l’erculeo Janko. Basta guardarlo e si capisce che ben pochi avrebbero voglia di mettersi a discutere con lui. Mi volto del tutto. “Grazie” dico con un filo di voce. Le lacrime cominciano a scendermi, enormi, inarrestabili, lungo il viso.
Un’ala mi circonda le spalle. E’ il suo braccio, incredibilmente è molto leggero. “Su, su” mi dice, dandomi qualche colpetto con le dita. Non si può dire che sia loquace. Ma il suo atteggiamento è decisamente confortante. “Meglio prendere una cioccolata” aggiunge con il suo stretto accento slavo.

*

Siamo seduti ad un tavolino in un vecchio caffè con gli specchi alle pareti. Molto asburgico, deve essere dei primi del Novecento. Davanti a noi, le cioccolate fumanti.
Parliamo, ma non tanto. Lui non è certo il tipo da sfoghi torrenziali e a me non va molto di chiacchierare. Tuttavia dopo un po’ si scioglie un tantino e, benché non sia un oratore e il suo italiano sia scarso, mi racconta che al suo paese, un villaggio dell’Erzegovina, non sarebbe mai successo ciò che è successo a me un po’  perché le macchine sono poche e poi  perché non capita mai che un uomo si permetta di dare gratuitamente dei titoli ad una donna mai vista prima, è impensabile, non si usa proprio. (O almeno finora non usava, penso io. Tutto cambia e si globalizza, è il progresso, ragazzo, la meravigliosa società multi-questo, multi-quello, multi-tutto). Ma ormai lo vedo come un cavaliere senza macchia e senza paura e mi vengono in mente certi racconti di mie conoscenti che anni fa (prima della caduta del Muro di Berlino o poco dopo) mi raccontavano che in certi paesi dell’Est, come la Polonia, si usavano cose che da noi erano scomparse come fare il baciamano alle signore, sfoggiare le belle maniere, e tenere aperte le porte alle donne, giovani o vecchie.
Poi però mi torna in mente la scena del posteggio e mi rimetto a tremare. “Su!” mi dice ancora, battendomi leggermente sulla mano. La conversazione si fa più sciolta. Gli chiedo del suo paese e un po’ per volta appare l’immagine di un posto sospeso tra il mondo mitteleuropeo e danubiano (anche lì esistono sontuose pasticcerie e si mangiano ricche torte a colazione) e quello balcanico che sdrucciola verso la Grecia e l’ Oriente. Poi mi parla di sé. Pochi accenni, ma ho visto tutto. Una casa di campagna, grande ma scomoda e poco riscaldata, simile a quelle dei nostri vecchi, se non fosse per gli ampi tappeti artigianali, eredità del dominio ottomano, che coprono i pavimenti anche nelle abitazioni dei contadini. Una famiglia all’antica, severa, quasi benestante, almeno un tempo e secondo i criteri delle campagne slave, ma non certo per i nostri standard. Oggi il lavoro della terra non basta più per mantenere tutti… La tradizione locale e il paternalismo del regime socialista hanno comunque provveduto a coltivare nel popolo una certa familiarità con i libri, la musica e gli strumenti musicali, e una consolidata inclinazione per le lingue e gli scacchi…
Mentre mi spiega queste cose, mi accorgo che è ancora assai giovane, chissà, magari non è passato molto tempo da quando appoggiava la testa bionda sulle ginocchia della madre, una contadina slava con un fazzolettone a fiori in testa. Ora invece, penso con tristezza, è qui, in questa città, alla corte di un affarista improvvisato dall’aria sospetta.
Parlando ho dimostrato una discreta conoscenza della ex Jugoslavia, frutto di viaggi e vacanze di alcuni anni fa, e una certa comprensione del suo ambiente culturale, cosa che lo stupisce e lo incanta. Capisco che è abituato a vedere davanti a sé gente che non sa nulla di lui, del suo mondo. Eppure Trieste aveva una certa familiarità con il vicino mondo slavo, specialmente quello costiero. Ma il suo ambiente d’origine è più lontano, non è quello istriano e carsico, ma quello della campagna profonda, isolata e balcanica. E poi, oggi, chi si cura di capire queste cose? Avverto la sua solitudine…
Ma comincio a sentirmi a mio agio e anche lui sembra non aver voglia di andare via.

*

Tuttavia non si può stare davanti a due tazze vuote in eterno e così usciamo per la strada.
Siccome è chiaro che nessuno dei due vuole rincasare, mi offro di mostrargli qualche angolo suggestivo e segreto della città e finiamo per passeggiare per le vecchie stradine benché sia ormai buio e il tempo sia tutt’altro che bello (tira vento ed è coperto, forse pioverà). Quasi senza accorgermene, ad un certo momento l’ho preso sottobraccio (mi sembra di essere con un ex compagno di scuola), parliamo animatamente e di tanto in tanto ridiamo come matti, io con la risata aperta, sonora, delle donne venete e giuliane, lui in modo più contenuto. Si fa tardi e ci infiliamo in una piccola trattoria dove ordiniamo una cena rustica.
E’ strano che mi senta così a mio agio con un uomo appena conosciuto. Ma mentre parla, mi rendo conto che ha avuto una vita dura e che non gli capita mai di poterne parlare con qualcuno. (I suoi amici non vorranno sentire queste storie e con l’altra gente nemmeno ci sono contatti). Una vita faticosa e severa in campagna, il regime con i suoi bastoni e le sue carote, poi la guerra e infine lo sradicamento dal suo ambiente. Sopravvivere, nient’altro. Ed è già molto. Altro che progetti e aspirazioni. Mi vergogno un po’ del mio vittimismo per i miei problemi di solitudine, dei miei insulsi casini sentimentali (anche se so che la sofferenza umana in realtà non è mai insulsa).
Sento anche da parte sua una preziosa disponibilità ad ascoltare me, fatto raro in un uomo. (Mi ricorda un po’ il mio amico del cuore del liceo, tal Matteo, un friulano bruttino ma dal cuore d’oro. Un tipo diversissimo da Janko fisicamente ma che mi dava la stessa sensazione di affidabilità). Mi fa pensare ad un tipo di virilità diverso rispetto al solito modello italiota, una virilità riservata, non ostentata, sobria e forte. Ma non per questo poco intensa.
D’ improvviso noto la sua mano, posata sul tavolo.
Credo di intuire molto di lui guardando quella mano (Le mani parlano. Mi capita spesso di capire le persone dalle loro mani. Occhi e sguardi possono ingannare, le mani no).
La sua è una mano ben cesellata, vigorosa, ma non priva di eleganza, di finezza. Non ha nulla di brutale, di rozzo, anche se non è esattamente spirituale  perché le ossa e le giunture sono forti ed esprimono energia. La peluria dorata è come una lieve polvere, niente setole, ma una sabbia d’oro. No, mi sono sbagliata, costui non è Ivan Drago, bensì il principe Ivan, quello di Stravinskij, il meraviglioso protagonista di tante favole slave…
Alzo gli occhi e noto la linea del mento, pura e ben disegnata, gli zigomi alti, un po’ pronunciati ma non forti, che danno al viso il carattere di nobiltà di un guerriero scita delle steppe. Incrocio il suo sguardo e sono certa di leggervi tenerezza, una tenerezza impreziosita da un fine riserbo.
Gli appoggio la testa sulla spalla.

*

Mi risveglio in un letto che non è il mio. Sono in una piccola stanza, la luce è smorzata. Guardo la finestra, mi rendo conto che albeggia.
Anche Janko è sveglio, si gira verso di me. Un raggio di luce danza sul suo viso dall’espressione, per la prima volta, indifesa. Un viso che appare nudo, ben più del resto del corpo, perché ha perso finalmente la sua maschera (Ma tra poco Janko dovrà erigere di nuovo la barriera difensiva).
Non dice niente, ma la nostra vicinanza è profonda, palpabile. Però io so anche che non può durare. Siamo come due sfere, solitarie e scintillanti, due pianeti le cui orbite si sono incrociate per un momento, e che per un momento hanno danzato una danza cosmica piena di armonia, ma che poi proseguono il loro cammino seguendo ciascuno la sua rotta.
Due pianeti, due esseri molto diversi. Due mondi differenti che si sfiorano per un attimo. Abbiamo vissuto insieme un giorno perfetto. Meno di ventiquattro ore. Ma un giorno perfetto non è poco. Ora riprenderò il mio cammino. Sola.

*

Glielo dico.
Non oso pensare che lui possa, per me, rompere con il suo ambiente e non essere più ciò che ora è (o è diventato).
E io non sono proprio nata per fare la pupa del gangster. Non ho il fisico e neanche più l’età.
La realtà è questa ( o “la nostra società” direbbe qualcuno, che ridere).
Lui annuisce, con un cenno del capo.
Solo una cosa gli chiedo. Di convincere il suo amico a non parlare più, a me e a Paola, della faccenda dell’alloggio. Ci deve lasciare in pace. Annuisce di nuovo, almeno su questo so che potrò stare tranquilla. (Invece so che non sarò tranquilla sul piano dei miei sentimenti, so che la sua immagine mi perseguiterà giorno e notte, so che mi aggrapperò all’assurda speranza di un futuro che non verrà ).
Lo guardo, lui non parla, vedo un’immensa tristezza sul suo viso pallido e tirato. Noto i suoi occhi infossati, le occhiaie. Anche la luce azzurra delle iridi appare grigia come la nebbia.
Ripesco i miei abiti e mi vesto, seduta sul bordo del letto.
Lancio uno sguardo verso la finestra: si sta facendo giorno, il tempo è peggiorato, ora viene giù che Dio la manda.
E’ finita, penso, per un attimo le orbite dei due pianeti si sono sfiorate, un secondo! Ma ora la realtà riprende i suoi diritti.
Non ho potuto guardarmi alle spalle. Sono fuggita nella pioggia.

 

Finale alternativo di “società multietnica”

 

Passa una serie di giorni senza luce.
Non ne posso più del mio lavoro a scuola.
Sono stanca di tutto… ogni tanto ripenso a Janko e mi ripeto che doveva finire come è finita. Sono passati ormai due mesi dal nostro strano e breve incontro. Mi ripeto che sono stata saggia ad evitare altri guai. Non ne ho abbastanza così?

*

Rientro tardi e vedo una busta bianca infilata sotto la porta di casa. Un messaggio segreto?? Sarà una bolletta, che romanticheria! Apro la porta e con un calcio butto la busta in un angolo. La guarderò dopo. Anche se è una bolletta, non mi faranno pagare la mora per due giorni.

*

Quella maledetta bolletta la devo pure aprire. No, non è una bolletta, c’è il mio indirizzo scritto a mano. Sarà un’altra di quelle agenzie immobiliari o di prestiti. Ma che volete da me.
Lacero la busta…
Un senso di gelo mi percorre dalla testa ai piedi mentre le guance mi scottano.
E’ di Janko. Ma come avrà fatto a trovare il mio indirizzo? Io non gliel’ho dato…
Ma già, l’avrà chiesto a Clara.
Sì, è una lettera d’amore. Scritta in un italiano tremendo. Piena di errori.
Mi siedo, mi prendo le tempie tra le mani.
Pensare. Devo pensare…