La veglia – Parte prima

La veglia
(di Luisa Paglieri)

 

 

“Oh già!” Disse il folletto Gughi stendendo le gambe, per la verità molto corte (ma in fondo del tutto proporzionate al suo corpo, lungo circa mezzo metro in tutto). La veglia era in pieno svolgimento.
Gli esseri umani ormai facevano di rado la veglia. Anche in campagna, erano pochi quelli che si trovavano per raccontare, spesso al buio o nella penombra, storie di fantasmi o storie di fate o storie d’amore. Avevano altri svaghi, internet, le pay tv…
Ma per il Piccolo Popolo la veglia, specie d’inverno, era un’ abitudine sempre attuale.
Quella sera ce n’era per tutti i gusti nel fienile di Camposcuro (minuscolo villaggio del Piemonte) perché tutti i rappresentanti del Piccolo Popolo locale si erano riuniti: un paio di folletti detti Servàn tra i quali Gughi, un Donanadl che chissà come era capitato lì quella sera allontanandosi dal nativo Tirolo, alcune fate delle montagne belle ma fredde e piuttosto silenziose, una masca con un cappuccio che le nascondeva buona parte del volto, probabilmente grinzoso, un Nano delle miniere che pareva spaesato, essendo lontano dal suo luogo abituale di residenza, due ippopodi che bazzicavano ancora quelle radure e perfino un Gigante accoccolato con le gambe incrociate che ci stava appena in quel locale così angusto. Il povero Gigante stava tutto curvo, con la testa incassata tra le spalle, ma non si lamentava perché era fin troppo contento di essere stato accolto nella compagnia, dato che i Giganti erano malvisti per la loro forza eccessiva e le loro rozze maniere e poi, per dirla tutta, perché non erano certo dei grandi affabulatori.
I partecipanti si erano raccontati storie a turno, adesso il moccolo si andava spegnendo… “Gughi, dai, racconta anche tu una storia!”
“Ma per piasì!” Disse il maligno Servàn schermendosi, la corta pipa in bocca e gli occhi pensosi, “Lo sapete che preferisco ascoltare!”
E questa era una bugia clamorosa: Gughi non ascoltava mai nessuno essendo tutt’altro che remissivo. Doveva sempre dire la sua, ribattere e rimbeccare. Era però, questo era vero, un narratore mediocre, che saltava di palo in frasca e doveva esser ricondotto sulla retta via, ossia in argomento, da qualche buon pizzicotto nella parte carnosa del braccio. Operazione di cui si incaricavano certe fatine, impazienti di sentire la conclusione della storia iniziata. “Dai Gughi, dai!”
“Va ben”, disse il Servan spostando la pipa dall’angolo destro della bocca al sinistro, “mettetevi
comodi e ascoltate…”
“Gum!” Disse il gigante.
Gli ippopodi spostarono le gambe facendo clac clac con gli zoccoli.
E tutti aprirono le orecchie.
“Conoscete la zona di Versej?” Chiese Gughi.
Quasi tutti annuirono.
“Vercelli!” Tradusse, a beneficio dell’ospite straniero (il Donanadl), uno dei folletti più giovani che sembrava darsi le arie di intellettuale.
“Allora (riprese Gughi) dovete sapere che una volta, diciamo un po’ di tempo fa, da quelle parti c’erano due famiglie rivali, i Tizzoni e gli Avogadro. Una di queste famiglie, gli Avogadro, era della fazione dei Guelfi e l’altra, i Tizzoni, di quella dei Ghibellini. Le due famiglie si detestavano, si erano fatte la guerra per anni. Mai sentito parlare dei Montecchi e dei Capuleti?” Chiese Gughi sfoggiando la sua cultura, “ecco, una cosa così. A volte c’erano state vere battaglie tra loro con morti e prigionieri…”
Uno dei Folèt presenti alla veglia, che era del biellese, quindi non troppo lontano dalla zona di Vercelli, interloquì con un acuto vocino dalla erre blesa. “A Vevcelli c’è una tovve…”
“Eh, come no!” concordò subito Gughi “c’è la torre dei Tizzoni in cui (molto tempo dopo rispetto alla mia storia) fu tenuta prigioniera la povera Maria Avogadro che poi se la cavò per un pelo. Ma torniamo alla nostra storia. Anche qui, come a Verona, il caso volle che due rampolli delle due famiglie si innamorassero!”
“Come andò la cosa?” Chiese una voce profonda. Era la masca che parlava da sotto il cappuccio. “Mah, non so bene…” disse Gughi “certo non ad una festa, non erano così badola, né gli uni né gli altri, da invitare quelli della parte avversa! Io credo che sia successo durante un pellegrinaggio.
Agnese Avogadro era molto pia come tutte le donne dei Guelfi. E un giorno si recò in un santuario di non so che santo durante una festa religiosa. E lì chi ci trova? Airaud dei Tizzoni, un marcantonio biondo, alto e magro che c’era venuto a cavallo tanto per dare un’occhiata alle donne! Perché i Ghibellini non erano tanto di chiesa, sapete!
Agnese si fermò con le sue serve in una locanda per mangiar qualcosa e Airaud lì in giro a lumare ben bene con tanto d’occhi!
E alla fine le fa portare un bigliettino da una cameriera. Chiedeva di vederla ma lei, dura! Macchè, non sta bene dar retta ad un giovinastro sconosciuto!
Agnese si rimise in cammino con i suoi e il mattino successivo attraversarono un boscaglia. Il suo cavallo vide un’ombra e s’ impennò e la povera ragazza fu sbalzata a terra. Le sue cameriere si spaventarono molto.
Anche l’unico uomo della comitiva, un servitore che in verità non era un’aquila, si torceva le mani non sapendo che fare.
D’un tratto sentirono una voce: “Serve aiuto?”
Un uomo altissimo e magro era sopraggiunto a cavallo e si era avvicinato al gruppetto.
“Ecco sì, signore… abbiamo paura che la nostra padrona si sia fatta male, forse si è rotta un osso, sarà prudente spostarla?”
“Vi siete fatta molto male?” Disse il giovane avvicinandosi a lei.
Agnese non rispose: aveva solo una caviglia slogata, il dolore era forte però e la ragazza era praticamente svenuta e non riusciva a parlare. Il giovane Airaud la riconobbe subito per quella che lo aveva snobbato la sera prima ma, vuoi perché lei era molto carina, vuoi perché in fondo lui era un buon fiulòt, si rese utile ed aiutò i servi, piuttosto fuori di testa, a soccorrere la ragazza. Costruirono una lettiga e Agnese fu trasportata in una casa vicina.
Era una casa di contadini però ampia e pulita. Airaud parlò ai padroni di casa e li persuase ad ospitare l’infortunata poi trasse dal corsetto qualche moneta d’oro che convinse definitivamente i bravi villici.
Airaud, sistemata la ragazza ed il suo piccolo seguito, avrebbe potuto andarsene ma così non fece. Uno strano sentimento di compassione si era insinuato in lui ed egli si sentiva, come cavaliere, responsabile di quella gente indifesa, che riteneva di modesto livello sociale (anche Agnese era vestita con molta semplicità, la giudicò una borghesuccia, magari la figlia di uno scrivano o di uno speziale).
Ben presto fu chiamato un medico che diagnosticò una slogatura molto dolorosa ma di certo non pericolosa per la vita. Inoltre la ragazza aveva battuto il capo ma per fortuna il cranio non era incrinato e si trattava solo di un bernoccolo.
Airaud a questo punto avrebbe dovuto andarsene ma decise di restare per la notte nella vicina locanda e il giorno dopo si recò alla casa dei contadini e s’ intrattenne brevemente con Agnese. Se la beveva con gli occhi… e comprese che la ragazza era di una famiglia illustre, a giudicare da come parlava. E inoltre era gentile, sensibile e intelligente. Basta, il resto lo capite! I due simpatizzarono istintivamente. Pian piano i sentimenti di Airaud mutarono… quella non era una ragazza con cui concedersi una breve avventura ma una persona che avrebbe potuto essere una compagna per la vita. Si informò con qualche domanda indiretta presso le due accompagnatrici di Agnese. E quale non fu la sua costernazione nel venire a sapere che era figlia di uno di quegli Avogadro che erano nemici giurati della sua famiglia!!!
Prima di separarsi anche Agnese gli domandò del suo casato. Di certo i suoi genitori avrebbero voluto sdebitarsi con lui. Anche per lei fu terribile venire a sapere che lui era uno dei Tizzoni, quei Ghibellini senza Dio, nemici del Papa, che erano i peggiori avversari dei suoi parenti!
Fu lì lì per troncare l’amicizia… ma poi guardò meglio in viso il giovane, con la sua espressione onesta, simpatica e sincera e non si sentì di interrompere quel filo d’oro che era nato tra i loro cuori!
Perché rinunciare al bel sogno? (Gughi si era concesso un momento di lirismo, anche lui aveva i suoi effetti di stile! Ma si riprese rapidamente e ritornò al suo solito modo di esprimere le cose.) Ormai l’amore era nato e i due concertarono un sistema per poter comunicare almeno tramite qualche lettera. Un inviato del giovane, travestito da mercante, si sarebbe recato da Agnese con il pretesto di mostrarle dei gioielli e le avrebbe recapitato una lettera…
Quando il pellegrinaggio fu finito e Agnese ritornò a casa, si mise ad aspettare e il messaggero le fece avere un biglietto. Airaud le proponeva un pericoloso appuntamento. Desiderava talmente tanto di vederlo che accettò e di notte il giovane passò sotto le sue finestre e si giurarono eterno amore, impegnandosi a sposarsi. Altre volte riuscirono a vedersi così o a scambiarsi lettere ma la cosa non poteva continuare e Airaud fece qualche tentativo di parlarne con la sua famiglia, prendendo la questione alla lontana, indirettamente, e parlandone come se si trattasse di un caso ipotetico con il capo dei Tizzoni (lui era di un ramo cadetto). Ma vide lo zio talmente maldisposto che comprese che mai avrebbe potuto sposare la sua bella con il consenso dei parenti. Non restava che fuggire insieme.”
***
“Ma Gughi”, interloquì una delle fate, sussiegosa, “noi che c’entriamo con queste storie degli umani?”
“Aspetta e vedrai!” rispose il folletto e, dopo aver ingollato un sorso di barbera da un fiasco che teneva vicino, si dispose a proseguire.
“Insomma Airaud si decise a mandare un messaggio all’amata tramite una persona che con molta difficoltà riuscì a farglielo pervenire: per non farla tanto lunga, un giorno, di mattino prestissimo, prima dell’alba, i due partirono insieme di nascosto e si disposero ad attraversare una certa zona per andare da degli amici di lui. Airaud confidava molto nel loro aiuto.
C’era un bosco da attraversare e qui il giovane si sentì molto poco sicuro circa la scorciatoia da prendere. Si ritrovarono nel fitto degli alberi e ad un tratto Agnese notò che tra le piante c’era qualcosa: guardando meglio scorse tra il fogliame alcune facce poco rassicuranti che, quasi nascoste, li osservavano.
“Scappiamo, scappiamo!” Urlò Agnese al suo compagno di viaggio e così dicendo diede di sprone e galoppò via seguita a ruota da Airaud che non aveva notato nulla ma comunque la seguì comprendendo che doveva esserci un pericolo.
Ma gli assalitori, che erano sei o sette, si misero subito sulle loro tracce e li tallonarono da vicino. Raggiunsero il giovane e riuscirono ad affiancarlo, poi lo strapparono giù dalla sella. (Agnese, che era poco più avanti, sfuggì per un pelo e i banditi rinunciarono a inseguirla). Dopo che ebbero legato Airaud, uno dei banditi disse: “Che facciamo con costui?”
“Lo spogliamo dei suoi bei vestiti, gli vuotiamo le tasche e poi lo appendiamo ad un albero!” rispose un altro.

 

Il povero Airaud era ormai rassegnato a finire i suoi giorni in quel modo orribile quando si udì un rumore: d’improvviso un nuovo manipolo di briganti più numeroso del primo sbucò dagli alberi, si precipitò sul gruppo e attaccò i banditi che erano giunti per primi! Ne seguì una rissa indiavolata durante la quale il giovane cercò di allontanarsi… ma aveva fatto pochi passi che subito fu riacciuffato da quelli del gruppo appena sopraggiunto che, battuti gli avversari (i quali scapparono a gambe levate), lo legarono, seppure non troppo strettamente e con una certa delicatezza, lo ficcarono in una piccola carrozza tirata da quattro destrieri neri come la notte e si allontanarono con lui abbastanza velocemente… Troppo, forse, per il giovane Airaud il quale si sentì come trasportato da una forza strana, innaturale.
La carrozza, scortata dai banditi a cavallo, percorse un lungo tratto di strada, poi salì per un sentierino, i destrieri scuri sembravano non provare alcuna fatica e parevano emettere fuoco dalle froge! In cima alla collina su cui il sentierino s’ inerpicava c’era un castello bellissimo anche se non grande. Pareva dorato e argentato e scintillava nell’ultimo sole (ormai era il tramonto). Arrivati al castello, gli strani banditi fecero scendere Airaud dalla carrozza e lo condussero dentro, sciogliendogli le gambe e le braccia (ma le mani le aveva ancora legate).
Il poveraccio temeva il peggio ma si chiedeva perché allora lo trattassero con relativa cortesia.
L’unica ipotesi realistica era che quello fosse un rapimento per chiedere un riscatto. A quei tempi non era insolito… c’erano tanti nobili, spesso impoveriti, che erano diventati dei masnadieri e poi, tra famiglie nemiche o rivali, poteva succedere.
In quel momento gli venne incontro sullo scalone d’ingresso una dama alta e piacente. “Povero giovane!” Disse “benvenuto! spero non vi abbiano fatto troppo male.” Airaud accennò un freddo inchino.
“Male? Oh mai più! Sono solo stato sequestrato, preso a forza! Immagino che voi vogliate un ragionevole riscatto ma tenete presente che la mia famiglia non è ricca…” La dama rise.
“Vedo che siete prudente! E un po’ spilorcio! Fate finta di essere di una famigliuccia ma siete vestito come un nobile e non dei minori!”
Airaud divenne rosso come un peperone. Spilorcio a lui, ad un cavaliere! Non glielo aveva mai detto nessuno!
“Sentite, in fatto di generosità non credo di aver mai mancato di ricompensare un amico o di punire un nemico insolente…” cominciò.
“Mio caro” disse la dama “perché litigare? voi qui siete un graditissimo ospite e siete stato portato a casa mia per il vostro bene, per sottrarvi ad un pericolo…” “Un pericolo?”
“Certo, voi non lo sapete, ma gli sgherri dei Guelfi sono sulle vostre tracce… e allora sì che avreste potuto essere rapito sul serio…”
Al giovane sembrava una solenne sciocchezza ma si sa che le donne s’intendono poco di politica e non volle entrare in una discussione.
“Io so bene chi siete voi,” continuò la signora, “voi siete uno dei Tizzoni. E io sono dama Tchesalina o Cesalina, fedelissima vassalla dell’imperatore, e sono la signora di questo luogo.” Gughi a questo punto interruppe la narrazione e attese le reazioni degli ascoltatori. “Tchesalina!” Esclamò l’uditorio colpito. Chi non conosceva la grande maga che a lungo aveva dominato il nord del Piemonte con i suoi incantesimi? Gughi fece una piccola pausa per consentire agli altri di mormorare e commentare un poco. Poi riprese:
“Al buon giovane non era noto che vi fosse una signoria siffatta nella zona ma la dama aggiunse vagamente che si trovavano molto più lontano di quanto lui non credesse perché aveva sottovalutato i tempi del viaggio o non si era reso conto della gran distanza percorsa.
Airaud, ricordando le strane sensazioni provate verso la fine del viaggio, rimase perplesso ma non lo disse.
Invece osservò: “Ma se volevate proteggermi da un rapimento perché non dirmelo? Perché farmi sopraffare a forza dai vostri uomini?”
La dama fece un vago gesto e non rispose. Poi proseguì dicendo che ormai lui era lì, graditissimo ospite, e perciò non doveva per nulla preoccuparsi ma passare lietamente le giornate fino a che le strade non diventassero sicure.
Basta, per farla breve, Airaud cominciò a spassarsela, gli venivano serviti cibi sopraffini, vini squisiti. Le sue giornate erano allietate da musicisti che suonavano il liuto o altri strumenti, da donzelle che leggevano per lui poemi su Artù e Lancillotto. La padrona di casa lo intratteneva con amabili conversari e insomma il giuvnòt si trovò piuttosto bene benché rimpiangesse la sua libertà e il fatto di non poter vedere né i suoi parenti e amici né la sua Agnese. Non aveva dimenticato Agnese, intendiamoci, ma il progetto matrimoniale si era allontanato dalla sua mente ed era stato rimandato a tempi da destinarsi.
Tuttavia Agnese faceva capolino nei suoi sogni e lui si chiedeva dove fosse andata a finire… sperava che fosse riuscita a sfuggire ai banditi e si fosse ricoverata da amici o parenti. Ma il ricordo di lei tra tanti deliziosi passatempi sbiadiva.
Come avrete capito Tchesalina, come parecchie altre dame dotate di poteri magici le cui storie trovate in tanti poemi cavallereschi (inutile scuotere la testa, belle mie, lo so bene che per il pubblico femminile qui presente quei libri sono tra le letture preferite!), aveva architettato tutta la faccenda per catturare Airaud! Infatti ogni tanto faceva rapire qualche bel cavaliere o gentiluomo e lo portava a casa sua… per farne il suo favorito finché non se ne stancava!
E anche in questo caso voleva far la stessa cosa e cercava di sedurre Airaud. Ma il giovane pareva abbastanza distaccato, poco propenso a farsi coinvolgere. E dire che quella volta Tchesalina si era presa un’imbarcata per davvero e pensava addirittura di fare di lui il suo sposo!
E che ne era stato di Agnese? Torniamo un poco indietro!” disse Gughi prima che qualcuno gli facesse quella domanda. (Una delle Fate, con aria seccata, tirò fuori dalla sua tazza di tisana profumata alle erbe una fatina minuscola che ci stava facendo il bagno, pensando, la screanzata, che il liquido fosse un bagno erboristico buono per la salute. La scagliò lontano e la fatina volò via scuotendo le alucce bagnate e si affrettò ad imbucarsi in un angolino).
“Abbiamo lasciato Agnese (disse Gughi) mentre dava di sprone e sfuggiva per un pelo ai banditi che avevano concentrato i loro sforzi sul suo compagno.
La povera ragazza cavalcò all’inizio credendosi seguita da Airaud ma ben presto si accorse che lui era rimasto indietro ed era probabilmente stato catturato.
Era costernata. Tornare indietro da sola sarebbe stato inutile, non restava che chiedere aiuto per cercare di liberare il poveretto. Girellò a lungo nella boscaglia ma senza incontrare nessuno. Non c’era neanche una casa colonica, o qualche boscaiolo o carbonaio. Era anche spossata, aveva fame, dopo aver vagato per ore.
Essendo una ragazza nobile non aveva mai dovuto soffrir la fame o procurarsi da mangiare! Ma non era neanche una sprovveduta, a quei tempi anche le ragazze erano toste! Cavalcavano, andavano a caccia, sapevano accendere il fuoco e talvolta usare le armi. Mica come adesso”, aggiunse Gughi, “con ‘sti gadàn allevati nella bambagia. Per cui Agnese cercò di guardarsi intorno. Per prima cosa vide un torrentello e si avvicinò. Sollevatasi le gonne, che rimboccò e infilò nella cintura, entrò nell’acqua bassa, dove nuotavano parecchi pesciolini! Finché ne vide uno abbastanza grosso, una trota mica male. E così, a mani nude, riuscì ad afferrarlo mentre quello si divincolava. Lo tirò su ma il pesce si mise a parlare con gran sorpresa di lei : “Lasciami, lasciami! Ti sarò utile!”
“Certo, rispose lei, ti infilzo in un ramo appuntito e ti faccio cuocere su un focherello, mi sarai utile sì!”
“No, risparmiami!” disse il pesce e fece tante di quelle promesse che lei lo lasciò andare.
Torna sul prato, si asciuga alla meglio e si mette a gironzolare. Ed ecco un nido, con tante uova, su di un ramo abbastanza basso! “Queste me le prendo!” Pensa lei. Ma ecco che arriva l’uccello-madre e la supplica di risparmiare i suoi piccini. E lei si lasciò commuovere. L’uccello le disse di essere amico dei signori dell’aria e le fece mille promesse.
Infine Agnese, che ormai moriva di fame, vide un alveare. Sapeva come si fa a prendere il miele, lo aveva visto fare dai contadini. Un’ape la fermò: “Per favore, non prendere il nostro miele! Ne abbiamo poco anche per noi! Se hai fame, cerca dei frutti… ”
Agnese rinunciò al miele e dovette ripiegare sulla raccolta di frutti. Sorbi, lamponi, fragole, qualche mela selvatica (molto dure, ma lei aveva i denti buoni!).
Si sentì un po’ rifocillata, ora il problema era cercare Airaud. Possibile che nessuno lo avesse visto? Conducendo il cavallo per la briglia, si avviò a piedi per una viottola. Ed ecco, improvvisamente, vide sotto un grosso albero una casuccia piccola piccola. Davanti alla casuccia, su una panca, stava seduta una vecchietta che filava, filava con un arcolaio.
Agnese si fermò: era gentile per natura e poi aveva simpatia per le vecchiette e quella era proprio carina.
“Buonasera, cara madre…” disse la fanciulla “non avreste mica visto un giovane così e così? (E glielo descrisse) magari portato via da degli uomini armati?”
“Oh sì, disse la vecchietta, “ho visto un tizio proprio come lo hai descritto tu. L’ho visto portare via in una carrozza.”
“Una carrozza? Pensavo fosse stato preso da un gruppo di masnadieri…” “Magari era un gruppo di masnadieri ma lo avevano messo su di una carrozza.” “E da che parte andavano?” Chiese la fanciulla disperata.
La donna ebbe uno sguardo strano: “Di là”, disse, e indicò con la mano un viottolo “L’unico posto dove possono essere andati, con una carrozza di quel genere, è il castello di Tchesalina che è per di là.”
“Tchesalina? Non so chi sia…”
“E’ una dama di queste parti… beh, non proprio di queste parti in senso stretto, c’è un bel pezzo di strada per arrivare! “
La ragazza pareva perplessa.
“E del resto”, disse allora la vecchietta, “prima ancora di vedere il giovane a bordo della carrozza, avevo avuto notizia di quel che era successo, e se vuoi una prova gira attorno alla casa (io non posso lasciare l’arcolaio) e capirai!”
Agnese girò intorno alla minuscola casina e dietro vide il cavallo di Airaud che pascolava tranquillo. Non era nemmeno impastoiato e sembrava a casa sua. Tornò di corsa dalla donna.
“Avete ragione, è il suo cavallo!”
“I banditi lo hanno lasciato andare o non hanno fatto in tempo a prenderlo… e lui passo passo è arrivato da me! Lo custodirò per il tuo amico, se credi.” “Sì, grazie…” disse Agnese. Ora era più convinta.
“Senti ragazza,” disse la vecchietta, “se ascolti il mio consiglio prosegui per questa stradina per un po’. Quando avrai visto il castello (lo riconoscerai perché è di colore argenteo), scendi da cavallo e manda l’animale da me. Troverà la mia casa. Tu prosegui a piedi e arriverai a breve. Ma prima di andare, prendi un pezzetto del mio filo che è qui per terra e legalo al polso. Ti porterà fortuna! Scusa se non te lo porgo ma non posso lasciare il mio lavoro.”
Agnese guardò verso terra, tra l’erba c’erano alcuni fili. Ne prese uno e se lo legò al polso.
“E fidati, ragazza, senza fiducia non si fa nulla. L’importante è riporla nella persona giusta. Hai visto il cavallo del tuo amico? Lui si è fidato. Così sono tutte le cose, vento, mare, animali, obbediscono a chi lo merita. E ora va!”
E Agnese risalì sul suo cavallo e si avviò.

 

L’AUTRICE

Luisa Paglieri è nata e risiede a Torino ed è laureata in Lettere e in Lingua e letteratura inglese. E’ autrice di parecchi racconti storici e fantastici che sono apparsi in svariate antologie. Ha scritto, in italiano e in inglese, saggi su Tolkien, Lewis, Shakespeare, sulla letteratura fantastica e sulla letteratura medievale pubblicati da vari editori, italiani e stranieri (Il Cerchio, Messaggero, Brepols, Walking Tree e altri).  Ha curato diverse traduzioni ed ha collaborato con riviste e periodici cartacei e on line. Ha partecipato a convegni e seminari presso alcune università e ha tenuto conferenze su vari argomenti storici e letterari, soprattutto sul genere fantastico, sul mito e sul folklore. Di recente pubblicazione è un romanzo di urban fantasy (Fantaxy, Marcovalerio editore). Con altri autori ha scritto un testo sulle creature fantastiche (Creature dell’impossibile, Edizioni Della Vigna) che è stato finalista per il Premio Italia.