Asfalto di Andrea Dovizioso

Asfalto

Andrea Dovizioso

Editore: Mondadori
Pagine: 221 p.
EAN: 9788852087431
Genere:
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“Ero l’uomo invisibile. Un numero. C’ero ma non c’ero. ‘Te, Dovi, sei del colore dell’asfalto’ mi ha detto una volta Luca Cadalora. Aveva ragione: la gente non mi vedeva proprio. Se sei uno che vive di corse e cerchi disperatamente i risultati ma non vinci, e in più sei un introverso che vuole essere persona e non personaggio, non vieni notato. La massa, di base, è attenta ad altro, non ha voglia né tempo da perdere per imparare a capirti. Io non vincevo, ma non perdevo clamorosamente: ero lì, in una specie di limbo e così mi si confondeva, tipo quelli che a una festa sfumano nella tappezzeria. Adesso dico che è normale e che in un certo senso sta nelle regole del gioco. Ma per tanto tempo io mi sono sentito incompreso. Ci sono voluti anni per capire che per uno come me la via per scendere a patti con un sistema che non ti riconosce è solo una: restare quello che sei, avere una faccia sola, sfuggire alla trasparenza restando trasparente. Come puoi diventare da grigio asfalto a rosso fuoco senza neanche un trucco e un parrucco?”
Questo è un libro non comune. Perché Andrea Dovizioso è un pilota, e soprattutto un uomo, non comune. Eccezionale nella sua normalità. Parla di velocità, ma anche di lentezza. Di coraggio, ma anche e soprattutto di paura. Di moto, ma anche e soprattutto di vita. Di ragione, e di sentimenti. Parla della rivincita di tutti gli incompresi. Di un modo nuovo di essere vincenti.

“Ma l’impresa eccezionale,
dammi retta, è essere normale.”

LUCIO DALLA

 

UN ESTRATTO

 

Asfalto

Ero l’uomo invisibile. Un numero. C’ero ma non c’ero. “Te, Dovi, sei del colore dell’asfalto” mi ha detto una volta Luca Cadalora. Aveva ragione: la gente non mi vedeva proprio. Se sei uno che vive di corse, cerchi disperatamente i risultati ma non vinci e in più sei un introverso che vuole essere persona e non personaggio, non vieni notato. La massa, di base, è attenta ad altro, non ha voglia né tempo da perdere per imparare a capirti.
E non è il semplice fatto di non vincere: è che oggi o sei estremo o non sei nessuno. Non dico che è giusto o sbagliato, ma il meccanismo è questo. Solo che io non sono estremo e non lo sarò mai. Io non vincevo, ma non perdevo clamorosamente: ero lì, in una specie di limbo. Bene ma non benissimo, come nella canzone. Andavo forte, sì, ma non ero tra i top che si giocavano davvero il successo, e così mi si confondeva, tipo quelli che a una festa sfumano nella tappezzeria. Non sei il più bello, non sei il più brutto. Non sei il più alto, non sei il più basso. Non sei lo sborone che tiene banco, non sei l’antipatico che disturba. Normale che non mi vedessero.
“Il Dovi? Bravo sì, però…”
Adesso dico che è normale e che in un certo senso sta nelle regole del gioco; adesso che ho capito com’è il gioco e come si fa a giocarci, o a non giocarci se non vuoi. Ma per tanto tempo io mi sono sentito incompreso. Realizzare di non essere visto e pensare di non essere capito è un passaggio automatico, e così diventa più difficile comprendere dove finiscono i tuoi limiti e dove le colpe degli altri, dove le tue chiusure al mondo e dove i suoi pregiudizi. Ci sono voluti anni per capire che per uno come me la via per scendere a patti con un sistema che non ti riconosce è solo una: restare quello che sei, avere una faccia sola, sfuggire alla trasparenza restando trasparente.
Sembra un paradosso: come puoi trasformarti da invisibile a protagonista senza nemmeno un compromesso? Come puoi diventare da grigio asfalto a rosso fuoco senza neanche un trucco e un parrucco? Come puoi stare dentro volendo stare fuori? Nello sport c’è solo un modo: fare risultati. Ed è per questo che mi piace e mi serve, e dovrebbe servire a tutti, perché lo sport non mente quasi mai. Risultati vuol dire vincere. O comunque essere lì in alto. Scuotere la gente con i duelli. Emozionarla. Dimostrare con i fatti, il lavoro e poche chiacchiere che la loro indifferenza è sbagliata.
Io non sono quello che vedete.
Ci sono voluti anni, tanti. E, voltandomi indietro, riconosco che avrei pensato di arrivarci molto prima. Ma per giocartela alla pari con i migliori devi essere forte sotto tutti gli aspetti, e a me serviva tempo. Una ragione, la fondamentale, è proprio perché ho continuato a seguire la mia natura. Se ora la gente mi guarda con occhio diverso, non è perché sono cambiato. Sì, sono migliorato come pilota e come uomo, ma la natura, il Dna diciamo, è sempre quella. Semplicemente ora sono gli altri che mi vedono da un’altra angolazione.
Alcuni giornalisti l’hanno definita la rivoluzione copernicana del Dovi. Mah. Io so che è stato come se attraverso i miei gesti, i miei sorpassi e le mie parole avessi modificato il modo in cui gli altri mi percepiscono. Come se avessi dato loro degli occhiali nuovi per guardarmi – tipo al cinema 3D – e loro, grazie alle mie vittorie e ai miei comportamenti, mi avessero scoperto per come sono davvero. Sono arrivato alla gente, l’ho emozionata, sono sbucato fuori dalla tappezzeria e loro hanno capito che nella stanza c’ero anch’io. Ho fatto breccia, sono stato compreso, e averlo fatto senza essere mai sceso a compromessi mi fa stare benissimo.
Qualcuno di quelli che prima mi ignoravano ora fa l’ironico: “Bravo Dovi, meglio tardi che mai”. Anche Valentino, facendomi i complimenti alla fine della scorsa stagione, mi ha detto: “Ci hai messo un po’, ma adesso ci hai preso gusto”. Ci ho messo un po’, verissimo. Ma io alla fine credo che ognuno abbia i suoi tempi, una specie di cronometro interiore che dà il passo all’esistenza, e nel mio caso non lo vedo come un limite ma come un valore aggiunto.
Se ci penso, è strano: faccio uno sport di velocità estrema, di rapidità di esecuzione, di decisioni da prendere in millesimi di secondo, di rischi continui; eppure la mia vita è fatta di una certa lentezza, tranquillità, lunghi ragionamenti, una calcolata freddezza, attenzione al processo che porta le cose a realizzarsi. Non mi pare una contraddizione. Casomai, un completamento. Due facce di una sola luna. Chi è che non si è mai sentito così almeno una volta nella vita?
Ha ragione Simone, il mio manager, quando mi paragona a una buona bottiglia di vino pregiato, di quelle che devi lasciare in cantina perché invecchino come si deve. Lui lo ha sempre saputo che con me non bisognava forzare i tempi. Il rischio era che sapessi di tappo. Bastava aspettare che l’ora arrivasse. Quando è successo, mi ha detto: “Lo sapevo che la tua annata era buona…”. La metafora dev’essere piaciuta anche al mio babbo, perché in un’intervista ha fatto il filosofo dicendo che l’anno in cui pianti una vigna non bevi il suo vino. Il giornalista, allora, ha citato Lucio Dalla: “L’impresa eccezionale di Dovizioso è essere normale”. Se non la smettono, quasi quasi finisce che mi descrivono come un eroe fuori dal tempo, ma non esageriamo. Fuori dal tempo, magari. Ma eroe proprio no.
È stato un processo, un lungo viaggio mai lineare, pieno di andate, ritorni, inversioni a “U”, ripartenze. A volte di labirinti da cui non sapevo come uscire. Una metamorfosi lenta ma implacabile fino a che, come sempre, arriva il momento in cui tutto gira in un attimo.

 

Sepang 2016. Fino a oggi il mondo della MotoGp, anzi il mondo in generale, ha pensato sì che io fossi forte – obiettivamente non si poteva mica dire che fossi scarso – ma anche che non avessi lo sboz per essere un grande pilota, uno dei cosiddetti top. Mancava la classe, forse. O le palle. O chissà che altro. In parte era vero. Per lungo tempo ne ero stato convinto anch’io. E in moto mi portavo sulle spalle la scimmia dei dubbi degli altri diventati miei. Poi arriva questa gara e la scena cambia.
La Malesia è sempre stata un luogo fondamentale della mia vita: Sepang provincia di Forlì, una delle mie piste preferite. Ci sono successe tante di quelle cose importanti, belle e brutte, che ormai mi sembra casa mia. Quando la vedevo in tv da ragazzino, prima di gareggiare nel Motomondiale, pensavo che fosse impossibile correrci tanto è grande e larga, una roba che fa paura. Invece poi ci ero entrato e l’avevo capita subito.
Non so perché la sento mia. Cioè, posso dire di conoscere le ragioni tecniche, e soprattutto una: si stacca forte, la mia specialità. Ma poi dev’essere qualcos’altro che non si spiega a parole. È che quando la vedo riconosco un posto amico. Il caldo che si appiccica alla pelle, le palme tutte intorno, i malesiani – o malesi? nel paddock siamo un po’ ignoranti e non lo abbiamo mai capito – che gridano ma non sai mai bene se di corse ci capiscono oppure no. Ogni tanto c’è pure un serpente che ti attraversa la strada. E poi piove.
Anche stavolta, tanto per cambiare, piove. Qui è sempre così: ogni giorno uno spruzzo, soprattutto nel periodo in cui arriviamo noi, in ottobre. Oggi, però, c’è proprio il diluvio, è una situazione limite, e ovviamente tanti dicono che sono io il favorito. Non è solo per la pole che ho fatto ieri, ma perché di solito la Ducati è quella che si comporta meglio in queste condizioni. “Anfibia” l’ha definita qualche esperto, come se fosse il frutto di chissà quale adattamento nei secoli all’ambiente. La verità è che questo suo pregio dipende dal suo limite attuale. Sul bagnato, infatti, le differenze di prestazione si attenuano e i valori tendenzialmente si uniformano. In sostanza, se sull’asciutto vai piano, sul bagnato vai meno piano. Poi, però, ci vuole il pilota, e io sulla pioggia guido bene.
È una qualità che ho sempre avuto. Forse è per la mia freddezza: so calcolare i rischi e gestisco gli imprevisti. Sull’acqua il manico e la sensibilità contano, ma il mio vero segreto è la strategia, la lettura delle situazioni, saper dosare il rischio con sensibilità: chi ci riesce fa la differenza. Sull’acqua devi danzare come Michael Jackson e pensare come Albert Einstein. E sotto l’acqua non vedi niente, le pozze si confondono coi tratti asciutti, la guida è un concentrato di fisica e preghiere. Ma più la prima che la seconda, perché pregare in moto non è mai la tattica migliore.
Dalla prima casella in griglia sono tranquillo. So come sto io e so come sta la moto. Con la squadra abbiamo lavorato bene, sento dentro uno strano senso di pienezza, anche se è chiaro che non ho combinato ancora niente e che niente di tutto questo verrà ricordato se non farò risultato. In sella, prima del via, guardo davanti a me il rettilineo libero e penso che sarebbe un buon affare sfruttare il vantaggio della pole: non avere nessuno che mi alza schiuma addosso permetterebbe di non sprecare energie mentali e amministrare le gomme come preferisco. E infatti dopo poche curve sono davanti a tutti.
Bravo, peccato che duri poco. Non è ancora finito il primo giro che sono terzo dietro Rossi e Iannone. Ma non mi preoccupo. Se c’è una cosa che non mi manca nella vita sono i piani B. E poi, penso, questa gara è lunga.
Noi piloti diciamo sempre così, ed è un apparente controsenso. Le gare, infatti, metro più metro meno, sono tutte lunghe uguali: un centinaio di chilometri. Che senso ha dire che una è più lunga di un’altra? Invece la differenza esiste, ed è un fatto di percezione: dipende dalla lunghezza dei rettilinei, dal numero di giri, dalle curve, dalla pasta dell’asfalto che trasforma le gomme, dalla posizione dei box e delle tribune, dai colori, dai suoni, dall’aria che condiziona le tue sensazioni, forse pure dai panini che vendono al chiosco dietro il paddock. Da come ti batte il cuore. Cento chilometri qui non sono cento chilometri al Sachsenring, e a pensarci bene, sai che scoperta: lo sa chiunque abbia fatto una volta gli stessi cento chilometri in autostrada o sulla via costiera.
Dunque, sereno. Capisco subito che la cosa migliore è seguire a distanza di sicurezza Rossi e Iannone che se le danno a ogni curva. Fanno il mio gioco e non lo sanno. E la Ducati è reattiva, il grip è perfetto, le braccia rispondono e in testa ho un’idea chiara: quando la gara entrerà nel vivo, le gomme chiederanno il conto e gli altri cominceranno ad avere problemi, io dovrò essere lì a raccogliere ciò per cui ho lavorato da venerdì, o da sempre.
La prima svolta arriva poco dopo metà gara, quando Márquez cade alla curva undici. Era dietro di me, forse non era competitivo per vincere, ma uno come lui è sempre meglio non averlo intorno, né dietro né davanti, neanche in tribuna. Poi sono io che sorpasso Iannone. Ho l’impressione che sia al limite, e infatti poco dopo arriva lungo e cade anche lui. A sei giri dal traguardo, l’ultimo terzo di gara, siamo rimasti io e Valentino.
I Gran Premi sono una corsa a eliminazione, una specie di darwinismo a motore: la lotta per l’evoluzione stavolta ha deciso che saremo io e lui a giocarci questa vittoria. Mi preparo mentalmente al duello, ma non faccio neanche in tempo a disegnare i miei piani che Valentino va larghissimo alla prima curva dopo il rettilineo e io mi ritrovo in testa. Penso che non è un miracolo e neanche un regalo, piuttosto il risultato di un’equazione: i calcoli al box dicevano questo e, una volta tanto, questo è accaduto. Come volevasi dimostrare. Ora non piove nemmeno più, bisogna solo restare concentrati verso l’obiettivo.
Be’, che problema c’è? Io sono un freddo, non mi scompongo davanti a nulla. Una volta hanno scritto che sembro uno di quei vecchi scacchisti sovietici con la cravatta e la riga di lato, capaci di stare seduti per ore a riflettere su un pedone; che il mio problema, casomai, è far uscire le emozioni, lasciarmi andare, magari raccontare un po’ di cazzi miei al mondo per essere simpatico, social, nel flusso. Moderno, insomma. Stavolta, però, so che fare lo scacchista robot mi servirà ad arrivare fino alla fine, alla faccia dei luoghi comuni.
Il problema, però, è che mi volto.
Cioè, non è neanche che mi volto. In corsa non ce n’è mai bisogno, perché appena abbassi la visiera il cervello gira più veloce, le percezioni si dilatano, i sensi si affinano, l’occhio è un grandangolo e tu diventi un animale capace di cogliere ultrasuoni e infrasuoni, il famoso battito d’ali di una farfalla a mille chilometri di distanza, l’odore di una pizza nell’altro emisfero. Gli amici in tribuna che piangono.
Merda!
Ho ancora un giro da fare, ormai sono senza pressione, Valentino ha mollato ed è lontano, io devo solo lasciare andare la moto, evitare errori, correre felice su una pista che amo, godermi la gara e il weekend perfetto. È una sensazione stupenda, una goduria impressionante.
E quelli piangono?
All’improvviso Ice Dovi si scioglie e inizio a piangere anch’io. Tutto il giro fra le lacrime, una roba assurda. Tra l’altro, piangere nel casco non è il massimo. Già è tutta la gara che non vedo niente, adesso ci mancano le lacrime. Mi sembra di avere la testa in una lavatrice e vedo i contorni delle cose come un deejay ubriaco a Riccione il sabato notte. Ma non posso farci niente, e nemmeno ci provo: cavolo, sono così felice…
Mentre imposto le curve a memoria, penso a quanto ho desiderato questa vittoria. Penso a come ho – abbiamo – lavorato sodo in Ducati in questi quattro anni: ho appena firmato con loro per altre due stagioni dopo aver rischiato di dovermene andare; sarebbe stato un lavoro non finito e invece io sapevo che c’era ancora molto da fare. Vincere è importante pure per il nostro rapporto: offrire loro una vittoria è diverso, ha un altro peso, un altro sapore. Penso a come la mia ultima vittoria, che poi è anche l’unica in MotoGp, risalga al 2009 a Donington: troppo lontana e troppo diversa, è come se non ci fosse mai stata. Penso a come in questi sette anni ci sia stata tanta sofferenza intorno a me. Troppa. Buoni risultati, sì, ma si corre per vincere e io non ce la facevo. Penso a come questa vittoria – se arriverà, perché manca ancora qualche curva e io sto piangendo di brutto e non vedo nulla e può succedere veramente di tutto – sia importante a livello sportivo ma soprattutto personale. Penso a come adesso, quando taglierò il traguardo e vedrò i ragazzi del box sul muretto agitare le mani e fare gesti strani, finirà un incubo e anche una presa per il culo. Sì, perché ormai in questo campionato avevano vinto in otto, otto piloti diversi in cima al podio, una roba mai vista. Ormai me lo dicevano tutti. I giornalisti, i colleghi nel paddock, persino gli amici: Dovi, manchi solo tu. Sembrava un obbligo, e a due gare dalla fine del campionato era diventata pesante: si corre per vincere, e com’è che nell’anno in cui vincono tutti io non ci riesco?
Dopo che sono sopravvissuto alla centrifuga, ricordo che alla televisione ho usato un’immagine insolita: “Li ho cucinati tutti”. Mi è venuta senza pensarci, io non pianifico mai la cosiddetta comunicazione. Comunque è un’immagine che mi piace: dà l’idea della pazienza, della scelta degli ingredienti, della loro armonizzazione, dell’attesa annusando i profumi, dell’attenzione a non sbagliare i tempi, della presentazione del piatto. Della cura, ecco. Io amo le cose fatte con cura, sono una specie di pilota slow food e questo momento è stato preparato nei dettagli, per me e per chi ha voglia di assaggiare e condividere. Un piatto così buono che appena lo hai finito hai già voglia di mangiarne un altro. E l’ho detto, sincero come sempre: “Questo è un tassello importante, lo metto lì, ma io non voglio vittorie tanto per averle”. Io voglio vittorie che servano a un progetto, roba di sostanza, particolari che messi insieme formino l’assoluto. Cioè il Mondiale.
Ora che non sono più trasparente, si comincia a giocare come dico io.

 

L’autore

Andrea Dovizioso (Forlimpopoli, 1986) è un pilota della MotoGP e corre su Ducati.