IL VOLTO DI AYANAMI: i simulacri femminili negli animanga
di Claudio Cordella
Editing Luisa Paglieri
QUARTA E ULTIMA PARTE
E siamo arrivati alla quarta e ultima parte di questo saggio. Colgo l’occasione per ringraziare Claudio d’averci offerto la sua notevole cultura – enciclopedica, direi! – e questo suo scritto.
A tutti voi lettori, rinnovo l’appuntamento a domani, con la presentazione di un romanzo per la vostra biblioteca!
Philip K. Dick (1928-1982) nel suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? (Cacciatore di androidi), il quale servì come base per il cult movie Blade Runner, si interroga già nel titolo se gli androids (androidi) possano o meno sognare delle pecore elettriche. Il senso di questa bizzarra domanda è riposto nei tratti fondamentali di un mondo dall’ecosistema devastato, nel quale gli esseri umani si attaccano morbosamente alle ultime forme di vita superstiti. Siamo di fronte ad una caratteristica del prototipo narrativo dickiano che viene trattata con grande attenzione nel sequel Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, laddove al contrario la precedente pellicola di Scott la menzionava quasi di sfuggita.
Qui possedere una capra, un cane o un gatto diventa sia uno status symbol a cui nessuno può rinunciare, così come un indispensabile supporto psicologico per gli ultimi abitanti di questa Terra futura. Quando non si hanno abbastanza soldi per poter comprare un animale, oppure quando il proprio beniamino inaspettatamente muore, c’è chi ricorre all’estrema risorsa dell’acquisto di un surrogato sintetico. Il Rick Deckard di Dick, non la sua controparte filmica interpretata dall’attore Harrison Ford, apparentemente possiede già una pecora. In realtà si tratta di una patetica messa in scena, allestita ad uso e consumo dei vicini per salvare le apparenze. Ecco perché il nostro, appena si sente in grado di sostenere la spesa, corre a comprare una costosissima capra di carne e sangue. Avere un animale è qualcosa di indispensabile per l’equilibrio psicofisico di Rick, così come per il benessere del suo traballante matrimonio, e Rick avverte la necessità di istituire un legame con i pochi lacerti superstiti della biosfera morente. Al contrario gli androidi, non essendo mai stati realmente vivi, non solo non avvertono alcuna empatia nei confronti dei loro creatori Homo sapiens ma nemmeno nei riguardi dei loro simili e per quelle sparute bestiole che sopravvivono ancora sulla superficie di una Terra contaminata dalla polvere radioattiva. Persino la Rachel Rosen dickiana, assai differente dalla Rachel Tyler cinematografica con il volto di Sean Young, seduce Rick solo per ottenerne il controllo, essendo capace di intessere sofisticate manipolazioni psicologiche ma non di amare (comunque sia, possiamo rintracciare le radici di entrambe nell’ottocentesca Eva futura). Al termine del romanzo, come ulteriore sfregio contro il suo amante, il quale è stato solo uno dei tanti di una lunga trafila di umani ingannati e poi abbandonati, pensa bene di uccidergli la capra appena acquistata, facendola uscire dalla sua gabbia per poi farla cadere dal tetto su cui stava. In Blade Runner ci imbattiamo in esemplari sintetici di animali, eppure qui la loro presenza, a differenza di quel che vediamo accadere nell’originale letterario, non sembra avere la medesima rilevanza. L’incontro tra il cacciatore a premio Rick Deckard e Rachel Rosen, la quale si presenta come la nipote di un importante costruttore di androidi, avviene all’insegna dell’inganno. I gufi sono una specie estinta, il pulviscolo contaminante che ha impestato il mondo li ha uccisi tutti quanti. Rachel, intenzionata a corrompere Deckard, tenta di convincerlo di essere in possesso di un esemplare in vita che potrà essere suo se sarà disposto a vendersi alla Rosen Association. Al contrario, nella pellicola di Scott, l’omologa di costei, Rachel Tyrell, non ha alcuna esitazione nel confermare la natura sintetica del gufo posseduto dalla Tyrell Corporation.
Curiosamente è il sequel a firma di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, che sembra attingere idealmente a piene mani dal lavoro di Dick quando ci mostra un ambiente inquinato e stracolmo di spazzatura, nel quale un semplice cavalluccio di legno, un umile giocattolo, è diventato un oggetto prezioso. Una reliquia appartenente ad un tempo lontano, quando gli alberi non erano solo dei tronchi morti che punteggiano un paesaggio brullo e desolato. La visione di Scott, così come quella di Villeneuve, riguardo ai simulacri dell’Homo sapiens è differente da quella di Dick, dato che gli androidi secondo quest’ultimo sono dei meri automi organici antropomorfi, diversi dai loro equivalenti cinematografici, chiamati replicants (replicanti) o skin jobs (“lavori in pelle”). I primi non sono capaci né di bontà né di amore, sono dei manichini senz’anima che scimmiottano il comportamento dei loro costruttori, provano piacere nell’infliggere dolore psicofisico alle bestie come alle persone. Solo in taluni casi, come per la sfortunata cantante lirica Luba Luft, abbiamo l’impressione di essere difronte ad una entità intelligente prossima a quella umana. Ciò nonostante, anche in questo caso forse abbiamo a che fare solamente con una sofisticata forma di mimetismo, seppure Luba possa sembrarci migliore di certi Homo sapiens, come Phil Resch. Quest’ultimo, un collega di Deckard, dimostra di essere così cinico e insensibile che la stessa operista lo taccia di disumanità, accusandolo di essere a sua volta un androide. Al contrario per Scott quelli che chiama replicanti, i cosiddetti “lavori in pelle”, sono piuttosto degli schiavi che rivendicano con ogni mezzo possibile la loro essenziale umanità. Qualcosa che a loro viene ingiustamente negato, di conseguenza quale ultima ratio non esitano a ricorrere a brutalità e a violenze di ogni sorta per affermare il loro diritto alla libertà. Villeneuve ce li mostra pronti a dar via ad una rivolta generale, così come del resto era già stato preannunciato in Blade Runner Black Out 2022, un interessante cortometraggio animato a firma di Shinichiro Watanabe, già noto per essere il regista dell’anime-cult Kaubōi Bibappu (Cowboy Bebop), in cui vediamo sia dei linciaggi organizzati ai danni dei replicanti sia questi ultimi iniziare ad agire in modo coordinato contro l’Homo sapiens. La loro prima grande vittoria riguarda la cancellazione dei registri informatici che li riguardano, impiegati per scovare e uccidere i lavori in pelle, grazie ad un potente impulso elettromagnetico provocato dall’esplosione della testata di un missile. Se Rachel Tyrel in Blade Runner si innamora di Deckard, ebbene nel sequel veniamo a conoscenza di una sua gravidanza, nonché della sua successiva morte per parto e dell’esistenza di una figlia segreta, tenuta celata agli occhi del mondo. Un’antropizzazione dei replicanti che passa attraverso il corpo femminile e alla sua tradizionale identificazione con la capacità di dare alla luce la vita, avere un utero funzionante è in tale ottica un’ulteriore prova del fatto che Rachel sia qualcosa di diverso da un oggetto parlante con gambe e braccia. Al contrario, si tenga ben presente come in Cacciatore di androidi gli umanoidi di Dick non siano capaci di generare, una mancanza che serve a sottolineare una volta di più la loro intima essenza oggettuale. All’opposto, come si è già visto per Blade Runner 2049, la creazione di forme di vita artificiali dotate di uteri funzionanti consiste nell’abbandono del cartesiano “penso dunque sono” in luogo di un “partorisco dunque sono”.
Già ben prima del film di Villeneuve, nel corso dei quattro episodi dell’OAV Amitēji Za Sādo (Armitage III), per non parlare della sua versione lungometraggio Amitēji Za Sādo: Poly-Matrix (Armitage III: Poly-Matrix), la prospettiva che un organismo cibernetico possa partorire veniva messa al centro della narrazione. Si pensi solo come nel successivo film, Amitēji Za Sādo: Dual-Matrix (Armitage III: Dual-Matrix), ritroviamo la cyborg protagonista di questi thriller futuribili nei panni dell’amorevole mogliettina, sposata con tanto di figli. L’umanità della femmina dell’Homo sapiens viene legata a doppio filo con la sua femminilità e quest’ultima viene risolta nella sua fertilità; naturalmente in base ad un’ottica, consapevolmente o meno, di stampo conservatore e patriarcale. Del resto è pur sempre vero che una delle caratteristiche degli organismi biologici è la riproduzione, di conseguenza gli autori di sci-fi nel momento in cui decidono di presentarci una nuova specie ricorrono spesso all’introduzione di neonati assai diversi rispetto ai loro genitori. Effettivamente, quando la vita che viene immaginata è artificiale, la presenza di un sistema riproduttivo rappresenta il conseguimento di un’importante tappa nell’evoluzione delle macchine. Una trovata che, come si è già avuto modo di accennare, non è certo patrimonio della sola arte cinematografica di Villeneuve, essendo rintracciabile nel reboot di questo secolo del telefilm Battlestar Galactica, il quale per altro non è privo di puntuali riferimenti al Blade Runner di Scott. A titolo esemplificativo, per ciò che attiene alla variegata galassia degli animanga, si pensi ad un anime classico degli anni ’70 come Shinzō ningen Kyashān (Kyashan il ragazzo androide), con le sue legioni di robot ribelli decisi a schiavizzare l’umanità. Quando anch’esso beneficia di un recente rifacimento, Kyashān Shinzu (Kyashan Sins), uno dei personaggi previsti è una piccola automa. Costei, a differenza di tutti gli altri robot, non è uscita dalla catena di montaggio di alcuna fabbrica ma è venuta alla luce come una qualsiasi neonata di Homo sapiens, seppur da un ventre robotico. In ultima analisi si tratta di una creatura speciale, esente da quella pestilenza che sta falciando i suoi confratelli metallici, facendoli arrugginire e riducendoli in polvere, per di più è in grado di crescere come una bambina, simbolo di una nuova epoca che sta per iniziare. Persino il Progetto 2501 del manga Ghost in the Shell di Shirow, un programma informatico divenuto autocosciente, desiderando assurgere al rango di essere vivente giudica nel medesimo modo, quali fattori imprescindibili, sia la mortalità che il desiderio di riprodursi. Ecco allora che nel successivo Kōkaku Kidōtai 2 ManMachine Interface (Ghost in the Shell 2: ManMachine Interface), fumetto tanto spettacolare a livello iconografico quanto caotico e incomprensibile sul piano narrativo, Shirow tenta di seguire le peripezie di più di una discendente dell’unione tra il Progetto 2501 (alias “Il marionettista”) e Motoko. Ricordiamo anche come nel sopracitato The Five Star Stories di Nagano, anch’esso all’onor del vero alquanto indecifrabile, le fatima non sempre risultano essere sterili. Talvolta, in taluni casi eccezionali, come possiamo dedurre dalla lettura del sesto e del settimo volume, anch’esse possono dare alla luce dei figli. Oltre a Lachesis, la quale sarà la madre di Kallen o Kallerna, nota pure con il nome scioglilingua di Kall-Ka’lr’llen’kallen, ci son altri casi di fatima che hanno generato un erede ed almeno un headdliner di indiscusso valore, tale Douglas Kaien, pare che abbia avuto una di queste schiave come madre.
Si consideri comunque come questi combattenti non siano delle persone comuni, sotto il punto di vista della forza fisica, dell’agilità, della prontezza fisica e dell’acutezza dei sensi sono più vicini alle loro compagne biomeccaniche rispetto a chiunque altro. Inoltre anch’essi sono stati sottoposti ad un pesante servaggio, gli headdliner non sono nient’altro che gli eredi di alcuni super-soldati creati geneticamente nel corso delle epoche più antiche dell’Ammasso. Costoro in origine non erano che delle marionette nelle mani dei potenti dell’epoca, sottoposti ad un controllo mentale analogo a quello che più tardi verrà applicato alle fatima, il cui sangue alterato aveva la proprietà di far impazzire o persino di uccidere chiunque avesse la sventura di venirne a contatto. Gli headdliner sono i loro lontani discendenti di questi servi-guerrieri, liberi da qualsiasi forma di manipolazione dei loro pensieri e capaci di mescolarsi con le altri genti del Joker. Quindi, al di là di tutte le cervellotiche spiegazioni in cui Nagano si dilunga riguardo al basso grado di fertilità di queste bambole organiche, l’unione tra queste due differenti genie di persone nate in laboratorio ci sembra essere naturale. Trattandosi in entrambi i casi di vite artificiali che devono fare i conti con un’infinità di limitazioni e di controlli, portatrici dello stigma della diversità e vittime di un razzismo in salsa futuristica, assimilabili tutte e due al concetto di simulacro. Esistenze emarginate ma al tempo stesso particolarissime, ad esempio la fatima Lachesis è l’incarnazione di una delle tre Parche della mitologia greca, le altre sue due sorelle, Klotho e Atropos, completano questo celebre triumvirato. Nella grecità erano considerate preposte a filare, tessere e infine recidere il filo del destino dei mortali, stabilendo la durata della loro vita nel momento preciso in cui nascevano. Specularmente, all’interno del fumetto di Nagano queste versioni sintetiche delle Parche hanno il compito di predisporre il destino finale dell’Ammasso Stellare. Costoro sono le tre Dee del Destino, Atropos, Lachesis e Klotho, prive del controllo mentale che caratterizza le loro simili, sovraintendono rispettivamente la Morte, il filo del Destino che va intessuto e infine il Nascere, rispettando così a pieno titoli i ruoli originariamente assegnatogli dall’antichità classica. In particolar modo se Klotho va incontro ad una sorte assai bizzarra, dopo esser stata presa a corte da un sovrano giusto e di buon cuore, combatte al suo fianco, ne vendica la morte e decide di farsi mettere in ibernazione, Atropos sin dall’inizio rappresenta una figura assai più sfuggente. Ostile al padre-inventore che l’ha creata, ha abbandonato la casa del suo artefice, anziano e in fin di vita, scegliendo volontariamente di condurre un’esistenza raminga.
Le fatima costruite da quest’uomo, il brillante quanto eccentrico dottor Chrome Balansh, un maith, cioè uno specialista nella realizzazione di questi robot biologici, sono state concepite prive di quel controllo mentale che caratterizza le loro simili. Si tratta di un’azione illegale, paragonabile a quel che avviene in certe storie robotiche di Isaac Asimov (1920-1992), quando si parla dell’eventualità di costruire un robot con un’alterazione delle celeberrime Tre Leggi della Robotica che ne regolano il comportamento, rendendo gli automi dotati di cervello positronico capaci di recare danno ad un essere umano. Guarda caso, proprio nel recente Blade Runner 2049, veniamo a conoscenza di una particolare serie di replicanti progettati apposta per essere docili e controllabili. Ebbene, analogamente tutte le fatima dovrebbero essere dei simulacri di tal fatta, dunque l’anomalia rappresentata dalle “figlie” di Balansh è di una gravità tale che gran parte del primo volume di The Five Star Stories è imperniato su questa anormalità illegale e su come evitare che sia resa pubblica. Queste ginoidi nascono in vitro, in apposite capsule, ma la loro crescita non avviene in modo analogo a quella dei bambini quanto piuttosto pare che sia necessario un ritorno in questi uteri hi-tech, oppure in analoghe strutture biomediche. Solo dopo un’ultima serie di modifiche le fatima diventano adulte, conservando il medesimo aspetto che hanno ricevuto dopo quest’ultimo trattamento sino al momento della loro morte. Quest’ultima in genere avviene sui campi di battaglia, dato che lo scopo principale dell’esistenza di una fatima è quello di combattere al servizio di un essere umano, in tal caso quando ciò avviene solo i padroni più pietosi hanno la premura di organizzare un funerale per le loro compagne. Un’azione che implicitamente ne riconosce in tal modo l’intrinseca umanità, o quantomeno una sua stretta vicinanza di parentela con la nostra specie, del resto di solito non si celebrano le esequie per un personal computer che non funziona più o per una lavatrice rotta. Una simile pietà non è però da tutti, visto che c’è pure chi considera le fatima come degli elettrodomestici, di conseguenza quando muoiono tende a gettarle via alla stessa stregua di un oggetto mal funzionante e non più utilizzabile. Tra l’altro, all’interno dello sviluppo di tutte le contorte intricate linee narrative del manga di Nagano, solo in un caso ci viene mostrata la scomparsa di una fatima per cause naturali alla veneranda età di 687 anni. Seppure il tempo nell’Ammasso scorra ad una velocità diversa rispetto al nostro, si tratta ugualmente di un traguardo ragguardevole, costei infatti è Intercity, ovverosia una delle prime quattro ginoidi ad esser stata creata nel Joker. La sua reale identità è stata celata da memorie fittizie e da una falsa identità di comodo. Tutto quanto allo scopo di evitare di farle fare la fine di un oggetto da museo, consentendole invece di vivere il più possibile sino all’ultimo, beneficiando alla fine di una dipartita serena, che spicca per la sua eccezionalità all’interno di una consuetudine che è assai diversa da questa. Il rapporto del simulacro con la morte è però in effetti in genere assai singolare, quest’ultimo rappresenta contemporaneamente: «[…] la morte ‘messa in piedi’ (morte posta a simulare la vita) e la vita mummificata (vita messa in forma di morte). C’è già qui, espresso in nucleo, il tratto che E. Jentsch identificherà come matrice generale di ciò che, dopo il saggio di Freud, si chiama comunemente “il perturbante”: “il dubbio che un essere apparentemente sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato”». Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino 1992, p. 162.
In altre parole, il simulacro ci turba perché ci sembra essendo vivo pur avendo un origine artificiale, spesso legata alla lavorazione della materia inorganica inanimata (metallo, plastica). Noi sappiamo benissimo che la sua origine è sintetica, ciò nonostante stentiamo a crederci, ci pare impossibile, quindi il contrasto tra quel che conosciamo e quel che vediamo si trasforma in un fattore ansiogeno per la nostra psiche. Quando poi un simulacro muore, come ci viene mostrato in The Five Star Stories, tale sensazione può anche acuirsi, questo perché ci rendiamo conto che è venuta a mancare una persona e non un ma mera cosa antropomorfa. È un po’ il medesimo spirito che animava un classico racconto di Lester Del Rey del 1938, Helen O’Loy, nel quale un inventore sposa la ginoide che ha costruito nascondendo a tutti la reale identità della sua consorte. Quando costui viene a mancare a causa di un infarto, la moglie desidera solo morire ed esser seppellita accanto all’amore della sua vita, da qui la necessità da parte sua di ricorrere all’aiuto di un amico fidato (a conoscenza del suo segreto) che l’aiuti a celare le sue imbarazzanti origini robotiche e che le assicuri il riposo eterno assieme al marito. Possiamo dunque concludere che la morte abbracci alla stessa maniera sia l’umanità che i suoi simulacri, i quali se femminei tendono se possibile ad accorciare ancor di più la distanza che li separa dai loro prototipi. Non solo turbando i sogni dei maschi della specie Homo sapiens, attratti dall’idea di una donna-oggetto prodotta in serie per venire incontro ai loro bisogni, ma anche dimostrando di esser capaci di generare. Suggestioni tutte quante che gli animanga, come abbiamo cercato di dimostrare attraverso gli esempi proposti, sembrano aver pienamente colto.
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