Colazione da Lamù: La rappresentazione del cibo negli animanga. Parte terza

 

Colazione da Lamù:

La rappresentazione del cibo negli animanga

di

Claudio Cordella

(terza parte)

 

[pullquote] Mangiare, dunque, non è solo opporsi all’ingordigia e agli asettici prodotti dell’industria agro-alimentare, ma è anche perseguire convivialità e socialità[/pullquote]

 

Arupusu no Shōjo Haiji (Heidi), l’orfanella svizzera creata nell’Ottocento da Johanna Spyri mostra di avere dei gusti alimentari assai singolari. Condotta con l’inganno dalla zia a Francoforte, alloggerà presso la ricca famiglia dei Seseman, laddove avrà il compito di alleviare la solitudine della figlia del padrone di casa, Clara, cagionevole di salute e immobilizzata su di una sedia a rotelle, ricoprendo un ruolo a metà strada tra quello di ancella/cameriera e quello di amica del cuore. Nel corso del suo sempre più sofferto soggiorno francofortese, Heidi dimostra di non apprezzare affatto le comodità moderne, dall’avere l’acqua corrente in cucina al poter consumare pasti a base di arrosti e di budini. Memore delle sue perdute montagne, non solo l’acqua di fonte rimane a suo parere una bevanda insuperabile ma pure il grossolano pane scuro del nonno, accompagnato con latte e formaggio di capra, rappresenta per lei uno state of art della gastronomia. Certo, la nostra eroina fa incetta di panini bianchi da portare a casa, non tanto perché lei personalmente ne sia ghiotta, quanto piuttosto per poterne fare, un giorno, dono alla nonnina cieca del pastorello Petar. Su questa medesima falsariga la cappellaia Sophie, protagonista di quell’intreccio tra steampunk e fantasy che è Hauru no ugoku shiro (Il castello errante di Howl) ispirato dall’opera di Diana Wynne Jones, una volta che viene maledetta e si ritrova trasformata da un sortilegio in una vecchietta, non sta a perdere tempo né in inutili tentennamenti, né in preparativi altrettanto privi di senso. Decide che non può più continuare la vita di prima, quindi si allontana a piedi dalla sua città con uno scialle sulle spalle, reca con sé quale viatico solo del pane e formaggio che ha arraffato in fretta e furia in cucina. Dopo aver ottenuto un passaggio su di un carro carico di fieno, si ferma nel bel mezzo della brughiera a pasteggiare in perfetta solitudine. Questa giovane/vecchia non si lamenta né della triste sorte che si è abbattuta su di lei né di quel pranzo improvvisato, esprime piuttosto contentezza per avere ancora dei denti sani con cui poterlo consumare, rammaricandosi semmai della poca strada percorsa. Sophie insomma è assai diversa sia dalla sorella Lettie, esuberante cameriera di un prestigioso caffè-pasticceria (in cui gli avventori si accalcano per il piacere di essere serviti da lei), sia dalla stravagante madre, essendo modesta, di poche pretese e solo in apparenza priva di qualità. In verità la sobria Sophie nasconde un animo indomito e forte, doti ben più preziose del saper civettare con garbo, caratteristiche uniche che faranno sì che lo stregone Howl si innamori di lei nonostante il suo aspetto senile.  In un contesto un po’ meno cupo si svolge la storia di Ponyo. Quando la piccola Ponyo, una bambina-pesce che desidera diventare un’umana di terraferma, di Gake no ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera), riesce finalmente a camminare sulla superficie e a incontrarsi con il piccolo Sosuke, intraprende un viaggio alla scoperta del mondo che parte inizialmente proprio dalla cucina. La madre del primo, materna, gentile e ospitale, offre a entrambi dapprima una bevanda calda, del tè dolcificato con del miele (un liquido ambrato che incanta Ponyo che lo fissa sgranando gli occhi). Di seguito, allestisce velocemente una bella cenetta ricorrendo a del ramen istantaneo, preparato versando dell’acqua bollente sugli spaghetti precotti contenuti nelle cup noodles, a cui in questo caso vengono aggiunti degli ingredienti extra come due fette di prosciutto, un uovo e delle verdure. Si tratta di un desinare che celebra la venuta di questa specie di sirenetta, per di più tramite una delle più note invenzioni dell’industria agro-alimentare nipponica. Analogamente quando la streghetta protagonista di Majo no takkyūbin (Kiki-Consegne a domicilio) arriva nella nuova città da lei prescelta per svolgere il suo apprendistato di un anno, trova ospitalità presso una panetteria, un piccolo negozietto di quartiere. È lì che inizia a vivere, dopo aver ripulito delle tracce di farina una stanza vuota del sottotetto. L’unica insegna della sua attività di consegne, esposta nella vetrina di questo negozio, sarà un pane lavorato in modo da ricordare le fattezze di una strega a cavallo di una scopa.

 

 

Il gatto nero parlante di questa maghetta, Jiji, teme di diventare di color bianco per colpa di tutti quei residui farinosi ma la gentile Osono offre ai due non solo un posto dove stare ma anche l’usufrutto della linea telefonica, oltre a un lavoretto part-time alla cassa (essendo in avanzato stato di gravidanza, lei e il marito hanno bisogno di un aiuto extra) e in più la colazione gratis. Kiki è il ritratto di una pacifica quanto idilliaca ucronia (storia alternativa), che ci trasporta in una versione idealizzata degli anni ’50-’60 nel quale la magia potrà anche funzionare ma in cui è ormai la tecnologia a dominare l’immaginario collettivo. A tal proposito, non solo ci imbattiamo in alcuni eccentrici ancora entusiasti delle prodezze della stregoneria, ma scopriamo quanto i forni a legna possano essere migliori rispetto a quelli elettrici. Usare i primi, come fanno una vispa nonnina e il marito panettiere della signora Osono, viene giudicato sotto una luce positiva; si tratta di una sorta di requisito essenziale per cucinare un eccellente sformato di zucca e aringhe così come dei croccanti filoni di pane. Mangiare, dunque, non è solo opporsi all’ingordigia e agli asettici prodotti dell’industria agro-alimentare, ma è anche perseguire convivialità e socialità. La viziata nipotina dell’anziana cuoca sopracitata, la quale desiderava farle pervenire a ogni costo la sua pietanza per il suo compleanno, comportandosi in modo sgarbato nei confronti di Kiki che ha aiutato in tutti modi questa vecchina e che ha portato a termine la consegna in tempo, dimostra di essere un’ingrata. Si tratta di una persona vuota e arida, incapace com’è di comprendere il sincero messaggio d’affetto racchiuso in quello sformato. Sentimenti di tal fatta invece altrove divengono basilari, se non addirittura principi cardine della sopravvivenza. In Kaze no tani no Naushika (Nausicaä della Valle del vento), sia nel manga così come nel relativo lungometraggio animato, il ritorno di un buon amico nel minuscolo regno della Kaze no tani (Valle del vento) viene festeggiato nel palazzo reale dall’intera popolazione valligiana. La ricomparsa in quelle terre di un viaggiatore come lo spadaccino errante Yupa Milada viene onorata con l’offerta di cibi e di bevande, si tratta di una preziosa occasione per rinsaldare i legami che già sussistono tra il guerriero e gli abitanti della Valle. Nelle tavole del fumetto l’ospite porta in dono delle erbe medicinali, le quali, ci viene assicurato, serviranno a salvare la vita a più di un bambino, inoltre chiede che le fanciulle che hanno raccolto i capelli sulla testa, quale segno della loro preparazione per le nozze, siano portate al suo cospetto. Riceveranno in dono delle pietre particolari, raccolte da Yupa nel corso dei suoi vagabondaggi, che serviranno ad abbellire i loro abiti da sposa. Il periodo della semina si è concluso e tutti, terminata quest’importante fase dei lavori agricoli, possono ascoltare i racconti relativi alle terre lontane che questo giramondo ha attraversato. Il che implica anche aprire i magazzini delle provviste, fare musica e divertirsi sino allo sfinimento. Nel film invece una neonata viene portata alla sua presenza, affinché egli svolga la funzione di padrino nei suoi confronti. Sempre nell’anime, molto più modestamente rispetto all’allegro caos da sagra paesana appena descritto, vediamo Yupa, in compagnia di Nausicaä e di un’anziana dama di corte, riuniti per desinare nelle stanze private di Jhil, immobilizzato a letto da una grave malattia che gli sta pietrificando gli arti. È questa vecchina che prepara la cena mentre conversa amabilmente con tutti i presenti, mentre le sue abili movenze denotano come non sia ostacolata dal fatto di esser ormai quasi cieca. La osserviamo mentre mescola una densa zuppa posta sul fuoco in un pentolino, continuando ad aggiungervi erbe e controllandone periodicamente il sapore con qualche assaggio. Si tratta, è bene non scordarlo, di un mondo neo-feudale poverissimo, una dura realtà rappresentata da contadini che tirano a campare in una Terra che è stata disastrata da un terribile conflitto e dall’inquinamento. A causa di questi antichi sconvolgimenti quest’ultima ora è ricoperta per la maggior parte da una giungla che trasuda miasmi tossici, inabitabile e pericolosa, il Fukai (Giungla Tossica, Mar Marcio), popolata da insetti di enormi proporzioni che possono arrecare gravi danni alle comunità dei superstiti. In questo secondo medioevo le superfici coltivabili non fanno altro che ridursi, fortunosamente l’agricoltura nella Valle del vento è resa possibile grazie a venti favorevoli che tengono [pullquote]All’interno di un simile contesto post-industriale, quei valori legati all’ospitalità tipici delle società arcaiche, più volte celebrati dalle più disparate tradizioni epiche, sono ritornati in auge [/pullquote]lontane tutte le tossine e le spore provenienti dal mondo esterno. All’interno di un simile contesto post-industriale, quei valori legati all’ospitalità tipici delle società arcaiche, più volte celebrati dalle più disparate tradizioni epiche, sono ritornati in auge. Di conseguenza chi viola tali consuetudini, come i soldati invasori che nel lungometraggio assassinano re Jhil nel suo letto, compiono un’azione che suscita riprovazione, orrore e raccapriccio. Non si scordi poi come la Nausicaä miyazakiana ricordi per alcuni aspetti l’omonima figlia del re dei Feaci dei poemi omerici, colei che condusse Odisseo alla reggia del padre laddove fu accolto come gradito ospite. Tra tutti questi esempi di convivialità spicca all’opposto l’asocialità del pilota di idrovolanti Marco Pagot di Kurenai no buta (Porco Rosso), un reduce della Grande Guerra che è sopravvissuto al conflitto (a differenza di amici e compagni) ma il cui aspetto è diventato quello di un suino antropomorfo. Il nostro vive appartato in una piccola insenatura nascosta, con il suo idrovolante rosso fiammante sempre pronto a partire, consuma i suoi pasti in solitudine direttamente sulla spiaggia, intanto che aspetta di essere chiamato per svolgere qualche lavoretto da mercenario. È proprio lì che abbiamo modo di scorgerlo per la prima volta, disteso su una sedia a sdraio all’ombra di un improvvisato ombrellone mentre si fa una pennichella con una rivista di cinema del 1922 calcata sul viso. Su un tavolino lì vicino son ben visibili una radio, una mela smangiucchiata e una bottiglia di vino mezza vuota, un bicchiere che contiene ancora dell’alcool, tutti quanti indici di un pranzo appena consumato. Tale eccentricità rimane un’anomalia all’interno del corpus miyazakiano, d’altronde l’asocialità di questo character, scontroso ma di buon cuore, separato dal resto del genere umano a causa della misteriosa metamorfosi che l’ha colpito, rimane uno dei suoi tratti distintivi. Persino quando di sera si reca nell’Hotel Adriano gestito dell’amata Gina, in quello che è un abituale ritrovo per i piloti d’idrovolante dell’Adriatico, si siede a cenare appartato a un tavolo singolo, lontano sia dalle coppiette così come dai nutriti gruppi di aviatori. Nonostante queste abitudini così riservate, quando è costretto a recarsi a Milano a farsi riparare l’aereo, nemmeno lui può rifiutarsi di consumare i pasti in compagnia. Giunto nella metropoli lombarda si è rivolto a una[pullquote]Marco è gradito ospite di questa azienda a conduzione familiare. In tal frangente gli è impossibile riprendere le sue abitudini da misantropo.[/pullquote] minuscola ditta di fiducia, la Piccolo s.p.a., ormai composta solo da un vecchio amico in là con gli anni, aiutato dalla sua giovane, quanto geniale, nipote Fio e dalle altre donne della famiglia. Invece gli uomini, seguendo un copione tristemente noto nella nostra penisola sino a tempi assai recenti, sono  dovuti emigrare tutti quanti all’estero a cercar lavoro. Nel corso del suo soggiorno milanese, quando il suo velivolo ridotto a pezzi dopo un duello aereo viene riparato e migliorato, Marco è gradito ospite di questa azienda a conduzione familiare. In tal frangente gli è impossibile riprendere le sue abitudini da misantropo. In particolar modo, assistiamo a un pranzo in comune nel quale spiccano dei giganteschi piatti di spaghetti con il sugo al pomodoro, accompagnati da del buon vino rosso. A tal proposito, ricordiamo qui come questo sensei del fumetto e dell’animazione, dopo aver collaborato alla realizzazione della leggendaria serie TV Rupan Sansei Kyū (Le avventure di Lupin III) del ’71-’72, ebbe modo anche di lavorare qualche anno dopo a una versione cinematografica di questo ladro gentiluomo: Rupan Sansei-Kariosutoro no shiro (Lupin III-Il castello di Cagliostro) del ’78. Questo film è principalmente ambientato nel Ducato di Cagliostro, una nazione immaginaria posta nell’arco alpino tra Austria e Germania, la cui economia è incentrata sullo spaccio di denaro falso. Qui, in un momento di tranquillità, possiamo vedere il ladro gentiluomo Lupin III e l’amico Jigen, un abile pistolero, mentre cenano e conversano amabilmente tra le quattro mura di una trattoria. Una graziosa cameriera pone davanti a loro un gigantesco vassoio di spaghetti con le polpette, accompagnate da una damigiana di rosso, una montagna di pastasciutta che i due hanno seri problemi a dividersi. Litigandosi la pasta a suon di posate, danno vita a una simpatica gag comica, dimostrando per altro di aver gradito quel piacevole cambio di dieta. Infatti i nostri simpatici malandrini, dopo un colpo finito male in un casinò, hanno viaggiato a lungo a bordo di una FIAT 500 per arrivare sino al Ducato. Nel corso del loro vagabondare on the road, attraverso delle sperdute strade secondarie, si sono nutriti esclusivamente di ramen e scatolette. Una dieta un po’ misera, in pratica la stessa che il padre di Ataru trovava così insoddisfacente, il che ci fa comprendere il loro successivo entusiasmo per la comparsa di un buon piatto di pasta. Quel che fa capolino in Il castello di Cagliostro, così come per la tavolata milanese di Porco Rosso, è un salutare consumare i pasti in comunità, un po’ come la cucina tipica della violenta epoca feudale dell’era Muromachi (1338-1573) veniva resa in Mononoke-hime (Principessa Mononoke). Laddove il nobile Ashitaka, giunto a Tataraba (Città del Ferro), un borgo fortificato imperniato sulle attività estrattive e su quelle metallurgiche, cena con del riso in compagnia degli uomini in una sala comune alla quale le donne non possono accedere. Una manifestazione di una rigorosa separazione tra i sessi e di una società patriarcale che la feudataria del luogo Eboshi, per molti aspetti progressista e illuminata, ha messo in discussione ma che non ha potuto abolire. Ecco allora che il misterioso principe maledetto, in quanto straniero responsabile di grandi imprese (ha salvato dei loro compagni), è al centro dell’interesse collettivo degli uomini che gli parlano del poco rispetto delle tradizioni di Eboshi e della sfacciataggine delle loro concittadine. Queste ultime, tutte quante schiave liberate, svolgono di norma mansioni di operaie nella Città del Ferro, assistite nelle operazioni metallurgiche per la creazione di fucili da un gruppo di lebbrosi. Per nulla umili e sottomesse, pur non violando il tabù che le esclude dalla[pullquote]Pur non potendo partecipare al banchetto, bevendo sakè e masticando riso, si accalcano attorno all’edificio ridendo, talvolta commentando sarcasticamente quel che odono[/pullquote] mensa destinata ai mariti e agli altri maschi, dal di fuori sentono benissimo quel che essi dicono. Pur non potendo partecipare al banchetto, bevendo sakè e masticando riso, si accalcano attorno all’edificio ridendo, talvolta commentando sarcasticamente quel che odono e da cui dissentono. È implicito che esista un’altra sala da pranzo similare, destinata però ai pasti in comune delle donne, così come il fatto che tutto quel banchettare serva a celebrare i caduti nel corso della spedizione organizzata per procurarsi delle preziose vettovaglie. Le quali, detto per inciso, sono state pagate con il ferro che è stato fuso in loco da queste stesse operaie vocianti. Le quali non esitano a invitare il giovane cavaliere venuto da lontano, valoroso e di bell’aspetto, ad abbandonare quella rozza compagnia maschile per venire a cenare da loro. Tataraba è un centro proto-industriale in piena regola ma non è autosufficiente dal punto di vista alimentare, circondato com’è da montagne disboscate e trasformate in miniere a cielo aperto, mentre non gli mancano i nemici che le rendono difficile procurarsi altrove le risorse di cui abbisogna. A partire dalle stesse forze della natura, ostili alle attività dannose per l’ambiente dei suoi abitanti, per non parlare di quei samurai avversari di Eboshi che vorrebbero prender il controllo di un territorio così ricco di risorse. Niente di che stupirsi se gli abitanti facciano festa nelle occasioni in cui le loro missioni commerciali, nonostante le difficoltà, riescano a far ritorno con dei sacchi di riso.

 

VI ASPETTIAMO LA PROSSIMA DOMENICA PER UN’ALTRA PUNTATA FRA CIBO E ANIME!