Colazione da Lamù: La rappresentazione del cibo negli animanga. Parte quarta.

 

Colazione da Lamù:

la rappresentazione del cibo negli animanga

di Claudio Cordella

 

Parte quarta

 

 

Diversamente da Miyazaki, però, Isao Takahata, suo amico e collaboratore storico (assieme al quale ha fondato il celebre Studio Ghibli), quando dirige Hotaru no haka (Una tomba per le lucciole) è lontanissimo dal mostrarci quelle inverosimili montagne di prelibatezze che anni dopo faranno mostra di sé all’interno della Città incantata. Qui al contrario Takahata ci conduce per mano in una realtà sempre più cupa, laddove conquistarsi un semplice boccone è un’impresa. Un cimento nel quale è la vita stessa a essere in palio e che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno se si tratta di due innocenti che nel corso della Seconda guerra mondiale devono combattere contro lo spettro della denutrizione e della morte per inedia. D’altro canto Takahata si ispira a un romanzo omonimo semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, scrittore, cantante, paroliere e uomo politico il quale nel 1945 si trovò realmente nella regione di Kobe bombardata dagli americani quando aveva soli quattordici anni. Nosaka poté vedere la fine di quello spaventoso conflitto ma la sua giovane sorella adottiva, a causa degli stenti patiti, non riuscì a sopravvivere. Giunti a questo punto, non si creda che riferimenti all’alimentazione in genere, se non addirittura agli esiti della più raffinata gastronomia, siano ravvisabili solo nei lungometraggi realizzati dai grandi maestri e all’interno di contesti per forza di cose seriosi. A tal proposito si consideri il lavoro di Rumiko Takahashi, la quale disegna a partire degli anni ’70 uno dei suoi manga più celebri, Urusei Yatsura (Lamù). Quest’ultimo è il frutto di un’insolita mescolanza di tradizioni folkloristiche del Sol Levante, stilemi d’origine fantascientifica, romanticismo e commedia, incentrata sulle deliranti peripezie della sexy-aliena Lum (Lamù), dell’amore della sua vita Ataru Moroboshi (un farfallone perdigiorno) e dei loro squinternati amici. Il regista Mamoru Oshii ebbe l’opportunità di dirigere svariati episodi della serie TV, realizzando ben 129 puntate prima di cedere lo scettro a Kazuo Yamazaki, conteggio al quale dobbiamo aggiungere la realizzazione di due lungometraggi da parte sua: Urusei Yatsura: Onrī Yū (Lamù: Only You) e Urusei Yatsura: ni-Byūtifuru Dorīmā (Lamù: Beautiful Dreamer). Concentrandoci sull’anime di Oshii e di Yamazaki, più che sul manga della Takahashi, constatiamo come tra le tematiche affrontate emerga senza alcun’ombra di dubbio quella erotico-sentimentale, oscillando dalla commedia sexy alla soap opera. Il doppio episodio L’amnesia di Lamù (Ep. 128-129), l’ultimo a essere diretto da Oshii, vira in direzione dell’approfondimento psicologico e del sentimentalismo. Al contrario, il precedente Accade una notte tra Ataru e Lamù, la centododicesima puntata della serie TV, offre agli spettatori un cocktail di comicità demenziale, con tanto di salaci doppi sensi e di puntuali citazioni tratte dalla saga di Star Wars. Qui i due protagonisti, rimasti soli a casa, si ritrovano a essere perseguitati dai compagni di scuola (autoproclamatisi difensori della verginità di Lamù) mentre Ataru si dibatte nell’incertezza (riguardo al fare o meno il grande passo con la sua bella). Un simile pandemonio serve ad animare una scoppiettante serie di gag, una più folle dell’altra, laddove l’unica vincitrice a conti fatti sarà Lamù, dato che l’aliena dimostrerà al di là di qualsiasi fraintendimento di non esser disposta a subire indebite pressioni da parte di ipocriti ammiratori.

 

 

 

 

Alla fine Ataru dormirà rinchiuso in uno speciale scafandro, atto a proteggerlo dai fulmini notturni della sua amata, così come a impedirgli di allungare le mani, mentre al contempo la nostra eroina sembra essere soddisfatta di come si sia svolta la serata il cui programma includeva anche una cenetta, che la nostra extraterrestre aveva preparato con tanto amore, sostituendosi alla “suocera” assente e assecondando i desideri del suo viziato “tesoruccio”. Peccato che quest’ultimo, insincero sino al midollo, non abbia mai avuto alcuna intenzione di assaggiare il frutto delle fatiche di Lamù, giudicandola (non a torto in verità) negata per i fornelli. Così, mentre questa ragazza dello spazio rischiava di far saltar in aria la cucina dei Moroboshi per preparare un piatto flambé, il preveggente Ataru dopo scuola era corso a mangiare di nascosto. Giunta l’ora di cena, lo vediamo rifiutare maleducatamente le pietanze preparate apposta per lui, placando la successiva irritazione della  “mogliettina” recitando a pappagallo qualche melensaggine ascoltata in televisione. Di quel che quest’ultima ha cucinato alla fine Ataru assaggerà solo un boccone, che però basterà a farlo stramazzare privo di sensi sul pavimento come un sacco di patate. Naturalmente, in linea con un certo maschilismo nipponico duro a morire, Ataru non ha mai pensato minimamente né di aiutarla né di sostituirsi a lei in qualità di cuoco. In Fungo, fungo delle mie brame… (Ep. 110), quando i nostri eroi patiscono un’intossicazione alimentare da funghi allucinogeni, sono solo le ragazze che si incaricano di cucinarli (credendoli commestibili) senza che in nessun modo i loro compagni di classe maschi si scomodino ad aiutarle in quella sciagurata impresa mangereccia (a cui però partecipano ben volentieri).
All’interno dell’arguta parodia Precario equilibrio (Ep. 107), una scanzonata presa in giro del cinema horror e del genere catastrofico, i ragazzi danno direttive e criticano il lavoro delle loro compagne ai fornelli, ma nonostante ciò non si azzardano a offrir loro alcun genere di aiuto concreto. In poche parole la divisione dei compiti su base sessuale, secondo cui tutto ciò che è attinente alla sfera domestica rientra nell’elenco delle competenze femminili, non viene affatto messa in discussione. Ricordiamo qui come in Giappone le possibilità di carriera per le donne siano alquanto limitate, il destino di casalinga attende ancor oggi al varco molte giovani neo-laureate. Anche loro a un certo punto dovranno sposarsi e anteporre alle loro aspirazioni personali il cambio dei pannolini, il sudare sui fornelli, gli innumerevoli obblighi sociali legati al loro ruolo di mogli; acconsentendo a ricoprire un ruolo faticoso, accettando assurde limitazioni e non poche frustrazioni.

 

 

 

Ecco allora che Ataru no Hana, la Madre di Ataru, oppressa dal faticoso lavoro domestico e dalle molteplici responsabilità che gravano sul suo capo, mostra i segni di una crescente alienazione da una realtà che non riesce più a sopportare. Tutto inizia dopo un incidente in un grande magazzino, causato da una lite con altre donne alle quali contendeva alcuni vestiti in saldo. Colpita da una delle sue rivali, contro la quale stava lottando come se entrambe si fossero trovate all’interno di un ring di wrestling, cade per terra e batte la testa. Da quel momento in poi le sue esperienze allucinatorie si susseguono a ripetizione, portandola a vagare da un mondo di fantasia all’altro sino a che non finisce con l’assistere alla distruzione di casa sua, con la conseguente morte del marito per mano di un tripode stile The War of the Worlds (La guerra dei mondi) di Herbert George Wells. Di seguito rinviene nel bel mezzo di uno scenario apocalittico, tra macerie e invasori alieni, sempre più confusa e disorientata. Quest’odissea si concluderà in un folle girotondo dal sapore felliniano, nel corso del quale l’adulta che è ora e la se stessa bambina di un tempo riusciranno a guardarsi negli occhi e a riconoscersi, comprendendo di essere due diversi aspetti della medesima persona. Ricordiamo infine qui come questa massaia frustrata, appena compresa la possibilità di plasmare a suo piacimento l’ambiente illusorio che la circonda, si conceda dei piccoli piaceri personali. Tra le soddisfazioni che costei si concede dobbiamo annoverare una mangiata pantagruelica a scrocco e il furto di una mucca. Per quanto riguarda invece il padre di Ataru, quasi un ragionier Ugo Fantozzi del Sol Levante, in La stella cadente (Ep. 200) lo vediamo bistrattato sia dal suo superiore che dalla moglie, la quale arriva a lesinargli i soldi per il pranzo, costringendolo a imbarazzanti scuse con i colleghi per non uscire a mangiare assieme a loro senza dover apparire né un miserabile squattrinato, né un asociale. Perseguitato dalla sventura, si ritrova dapprima a essere coinvolto in un incidente stradale (avendo inseguito in mezzo al traffico l’unica moneta che aveva in tasca) ma in seguito, grazie a una stella dei desideri legata alla festività di tanabata.  Quest’ultima, il cui nome significa letteralmente la “settima notte”, ci offre uno squarcio sul mondo interiore del padre di Ataru (Ataru no Chichi), ingabbiato in una vita che odia e dalla quale cerca una via di fuga attraverso i sogni. Ricordiamo qui come tale festività si intrecci con la celebrazione di quella dei morti, il bon, in cui si commemorano gli antenati e si esorcizzano le anime inquiete tramite tutta una serie di rituali. Tale ricorrenza è anche legata a una leggenda romantica d’origine cinese, incentrata su due amanti che possono incontrarsi solo una volta all’anno, frequentemente citata negli animanga: Raveri, op. cit., p. 375.

Qui è interessante notare come abbia grande risalto un battibecco tra i coniugi incentrato sul cibo, con la bisbetica consorte del signor Moroboshi che vuole che quest’ultimo si arrangi per pranzare con una moneta da 100 yen. Una cifra assai modesta, con la quale negli anni ’80 il poveretto avrebbe potuto comprarsi un panino, del ramen istantaneo, oppure del semplice riso in bianco che la donna consiglia di arricchire con il sale e con gli altri condimenti gratuiti. Il ramen, pur essendo un tipico piatto giapponese, ha le sue radici in Cina, è fatto da tagliatelle di tipo cinese di frumento servite in brodo di verdure oppure di pesce, spesso insaporito con altri ingredienti come la salsa di soia o di miso, con guarnizioni di maiale affettato (chāshū), del nori, etc. A volte i ramen vengono chiamati chūka soba o shina soba, “spaghetti cinesi”. Ciò nonostante la soba è un piatto tipico giapponese, nato nel corso del periodo Edo (1603-1867), al contrario i ramen sono d’origine cinese. Praticamente ogni località del Giappone ha la sua caratteristica variante regionale di ramen. Nel 1958 Momofuku Ando (1910-2007), il taiwanese-giapponese fondatore e presidente della Nissin Foods, inventò il ramen istantaneo: «[…] la pasta istantanea è un prodotto industriale che ha conosciuto un notevole successo e continua a riscuotere il favore di tutti gli abitanti dell’Asia orientale, del Giappone, della Corea, della Cina e di Taiwan. […] Si presenta sotto forma di spaghetti precotti, disidratati e pre-conditi, confezionati in ciotole o coppe di plastica chiuse ermeticamente, i celebri “cup noodles” della ditta giapponese Nissin. Basta aggiungervi una certa quantità d’acqua calda, aspettare qualche minuto e […] riprendono la forma originaria assorbendo una parte dell’acqua, formando così un piatto di spaghetti in brodo belli caldi e pronti per essere mangiati. La loro tecnica di fabbricazione industriale è interessante, poiché deriva dall’osservazione delle trasformazioni fisico-chimiche di alcune materie alimentari sottoposte a frittura […] È indubbio che il principio di questa fabbricazione, fondato sulla concatenazione di trattamenti termici differenti era ben noto in Cina […] Ma il processo industriale venne messo finalmente a punto proprio in Giappone […]». Silvano Serventi, Françoise Sabban, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Roma-Bari 2000, pp. 431-432.

 

DOMENICA 29 APRILE POTRETE LEGGERE LA QUINTA E ULTIMA PARTE. NON MANCATE!

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