Dal mito alla favola bella.

Dal mito alla favola bella. Da Canaletto a Boldini. Il tesoro d’Italia. Vol. 5

Vittorio Sgarbi

Editore:La nave di Teseo

Pagine della versione a stampa: 464 p.
EAN: 9788893443135

 

Quando Vittorio Sgarbi scrive, il suo racconto è diverso dalla passione polemica degli interventi televisivi, nelle sue pagine c’è altro: scrittura densa di riferimenti, continua tensione per la scoperta.

 

Descrizione
Dal mito alla favola bella continua il percorso di Vittorio Sgarbi per comporre una storia e geografia dell’arte in Italia. Con Venezia si apre, nel segno del mito, questo quinto volume, in una luce che, per l’ultima volta, si diffonde in tutta Europa. Dopo i fasti di Tiepolo, Canaletto e Canova, iniziano, infatti, esperienze artistiche meno clamorose, eppure non meno straordinarie. In un itinerario che, da Venezia, ci porta a Roma, a Napoli, risale in Toscana e in Emilia in un arco temporale che dalla seconda metà del Settecento ci conduce ai primi decenni del Novecento, approdiamo, infine, a Milano, alla soglia delle avanguardie e in un momento in cui l’Italia sembra recuperare, con Boldini e la Belle Époque, “la favola bella”, appunto, una nuova e diversa centralità. Boldini chiama D’Annunzio. Vittorio Sgarbi disegna un rigoroso itinerario cronologico, ma prestando estrema attenzione a non tralasciare gli umori regionali, illustrando artisti noti e invitandoci, come sempre, a scoprirne altri meno noti ma non meno grandi. Bellotto, Piranesi, Hayez, la Scapigliatura, Stern, Signorini, De Nittis, Segantini, Pelizza da Volpedo, Morbelli, Klimt, Baccarini, Morbelli, Previati, per ricordare solo alcuni dei cinquanta autori illustrati in questo volume: una galleria di meraviglie e sorprese che invitano il lettore a un suo inevitabile personalissimo viaggio.

 

PREFAZIONE
ARTURO CARLO QUINTAVALLE

Quando Vittorio Sgarbi scrive, il suo racconto è diverso dalla passione polemica degli interventi televisivi, nelle sue pagine c’è altro: scrittura densa di riferimenti, continua tensione per la scoperta. Ogni nuovo incontro con le opere è sempre scelta di far capire, di proporre prospettive nuove. E questa scrittura ha una tradizione, una storia, e si spiega anche nel segno del ricordo. “Eravamo ragazzi all’Università di Bologna, studenti nell’aula di storia dell’arte che era stata di Roberto Longhi, freschi allievi di Francesco Arcangeli,” scrive Sgarbi e, ancora, a proposito della “vita senza idillio” di Antonio Fontanesi: “Un poeta lirico del fiume, un temperamento tormentato e disperato. Mi chiedo come mai il mio maestro Francesco Arcangeli, bolognese di indole malinconica, non ce ne abbia mai parlato in questi termini nelle sue fluviali e appassionanti lezioni, mentre ci portava nei vortici travolgenti di William Turner, o nei boschi inestricabili di John Constable.” Dunque la lezione di un grande critico che riscopriva nell’Informale la modernità di Giorgio Morandi, ma insieme anche l’acribia di Carlo Volpe, storico dell’arte raffinato. Queste le origini di Sgarbi, la sua storia, ma, al maestro, si aggiunge il dialogo continuo con Roberto Longhi. Dunque da una parte i luminosi trionfi di Giambattista Tiepolo, dall’altra il realismo “borghese” di Giandomenico, oppure la fotografia di Wilhelm von Gloeden intesa come riscoperta del realismo caravaggesco, ma senza dimenticare che i primi studi sul pittore lombardo sono di Lionello Venturi, Matteo Marangoni e Hermann Voss. Insomma la scrittura felice, appassionata di Sgarbi nasce da una storia – alta –, quella dei primi allievi di Roberto Longhi a Bologna.
Il libro è denso di scoperte, di scelte, anche ricordi di importanti acquisizioni per la collezione di famiglia, e poi ecco Giovan Battista Piazzetta evocatore della pittura del Seicento, Giacomo Quarenghi che esporta Palladio in Russia, Antonio Canova scultore del sublime, Medardo Rosso che, con le vibranti trasparenze dei bozzetti in cera, stimola Rodin. Nuove attribuzioni, nuove letture ma, insieme, una consapevolezza: scrivere è invenzione, scrivere è sempre racconto, ma, per narrare, si deve conoscere la storia. Lo dice Longhi, “Bellotto è un pittore della realtà” e Sgarbi ci fa capire: Canaletto e Bellotto usano la camera chiara, la prospettiva, ma mai il primo avrebbe dipinto, come fa Bellotto a Dresda, una chiesa, la Kreuzkirche, distrutta. Insomma la chiave di lettura della storia dell’arte è da una parte il realismo, dall’altra il “sublime” del classico. Vivono ancora, nel critico ferrarese, le illuminanti lezioni dei maestri nelle aule della amata Bologna.

 

CAPITOLO I
VENEZIA

Giambattista Tiepolo, Investitura del vescovo Aroldo, Würzburg Residenz

 

GIAMBATTISTA TIEPOLO
L’ULTIMA LUCE DI VENEZIA E LE SUE OMBRE

Con il veneziano Giambattista Tiepolo (1696-1770), l’arte italiana conosce l’ultimo esponente ancora in grado di legittimarne il primato nel mondo.
È un’affermazione che solo in parte risponde al vero. Anche se in maniera meno evidente che in passato, l’Italia sarebbe rimasta al centro dell’attenzione internazionale fino all’epoca neoclassica, quando Antonio Canova era ritenuto l’artista più famoso del suo tempo. È solo con lo sviluppo della cultura romantica, in particolare delle sue tendenze anticlassiche, che l’arte italiana accumula ritardo rispetto ad altre, come la francese, la più evoluta fra l’Ottocento e il primo Novecento. Quanto al primato dell’arte italiana prima del Tiepolo, aveva già subito un notevole ridimensionamento quando, per esempio, Gian Lorenzo Bernini aveva perduto a favore degli architetti francesi il progetto per la Reggia di Versailles, la più rilevante impresa edilizia del tardo Seicento. Era il segno che all’estero i nostri artisti non erano più ritenuti insuperabili, com’era avvenuto a partire dal Rinascimento, in corrispondenza di un quadro politico internazionale in cui l’Italia era ormai costretta a un ruolo subalterno alle grandi potenze europee.
Ciò nonostante, gli artisti italiani erano ancora molto richiesti nelle corti europee, dall’Inghilterra alla Germania e all’Austria, dalla Polonia alla Spagna, dalla Francia all’Olanda, dimostrando una maggiore disponibilità all’emigrazione rispetto al passato. Particolarmente attivo è il gruppo dei veneziani, con l’esperienza inglese di Sebastiano e Marco Ricci, con i pittori rococò Giovanni Antonio Pellegrini, Jacopo Amigoni, Rosalba Carriera, con i vedutisti come Canaletto e Bernardo Bellotto. Anche Giambattista Tiepolo, “Tiepoleto” per i veneziani (era di bassa statura), andò a raccogliere gloria e onori all’estero: prima a Würzburg (1751-1753), dove, nella Residenz del principe vescovo von Greiffenklau, lasciò forse i suoi massimi capolavori; poi a Madrid (1762-1770), dove trovò la morte. In Germania e Spagna, l’anziano Tiepolo porta a pieno compimento un modo d’intendere e mettere in pratica l’arte che aveva comunque maturato in Italia: a Udine, Milano, Bergamo, Vicenza e, soprattutto, nella sua Venezia. Lì aveva iniziato la carriera al seguito dell’eclettico Gregorio Lazzarini, uno dei pittori veneziani più affermati del tempo, per poi indirizzarsi, dopo il matrimonio con Cecilia Guardi, sorella del noto pittore Francesco, verso una maniera che tenesse il confronto con quella altamente drammatica di Giovan Battista Piazzetta, il principe dei “tenebristi” settecenteschi.

 

 

I “tenebristi” erano pittori veneziani che avevano accordato il colorismo della tradizione locale a forti contrasti di chiaroscuro che derivavano, in prima istanza, dalla lezione di Caravaggio. In Tiepolo, il tenebrismo viene mitigato da una trasparenza e una solarità che rielaborano il modello cinquecentesco di Paolo Veronese, fornendone versioni adeguate al gusto tardobarocco per uno stile di rapida esecuzione, intenso e brillante. Progressivamente, lo stile di Tiepolo si fa sempre più arioso e scenografico, forse anche per l’influenza del francese Dorigny, attivo nel Veneto, vincendo l’antagonismo con i tenebristi. Ciò avviene, in particolare, dopo gli anni trenta, quando le principali commesse di Tiepolo provengono da fuori Venezia, compresa quella che lo vede per la prima volta all’estero, a Diessen, nel 1739. La peculiarità di Tiepolo diventa l’affresco, specie dei soffitti, nei cui “sfondati”, a mostrare cieli immaginari abitati da creature divine, riusciva a dare il meglio di sé.
Gli affreschi di Ca’ Rezzonico (1757), attuale sede del Museo del Settecento, sono l’ultima grande impresa di Tiepolo a Venezia. Il palazzo, iniziato dal Longhena alla fine del Seicento e concluso a partire dal 1750 da Giorgio Massari, era di proprietà della famiglia che, solo un anno più tardi, avrebbe visto un suo esponente eletto papa con il nome di Clemente XIII. Nel piano nobile, il primo Tiepolo decora due sale diverse, avvalendosi della collaborazione del figlio Giandomenico e del quadraturista Gerolamo Mengozzi Colonna, specialista nella rappresentazione di architetture illusorie. Nella Sala delle Nozze, dipinge un’allegoria in onore di Ludovico Rezzonico e Faustina Savorgnan, sposatisi nel gennaio 1758. Lo “sfondato”, dalle dominanti cromatiche fra il color dell’aria e il dorato, con inserti di tinte terrose che fanno da contrappunto al bagliore accecante, è dominato dal carro di Apollo che conduce i due sposi, annunciati da Cupido bendato e accompagnati da figure allegoriche come la Fama, che suona la tromba, la Sapienza e le Grazie, nella tipica carnalità giovanile di cui Tiepolo è stato cantore insuperabile. Sotto la balaustra, il carro viene salutato da un anziano condottiero barbuto, il Merito, con il lauro della gloria in testa, lo scettro in una mano e le insegne di famiglia degli sposi nell’altra. Dietro di lui, il Leone di San Marco, simbolo di Venezia, assiste pigramente alla scena. Rispetto a quelle realizzate nella Residenz di Würzburg, si tratta di una composizione ridotta, meno festosa, animata, variata, con un numero più limitato di protagonisti, ma che propone una visione ugualmente autoironica nel concepire l’apoteosi di qualcuno che ancora era in vita, individuando la pittura come la più spettacolare e divertente delle finzioni possibili. Di lì a poco, certe autocelebrazioni dell’aristocrazia sarebbero risultate terribilmente retoriche, espressione di un ancien régime che l’Illuminismo avrebbe superato, introducendo alla mentalità moderna. Pur continuando a seguirla, Tiepolo intuisce l’imminente crisi della società eletta per la quale lavora, dando all’apoteosi il carattere di un gioco sensuale che va goduto nei suoi effetti fantasmagorici ma che non va preso troppo sul serio.
Anche l’affresco nella Sala del Trono, La Nobiltà, la Virtù e la Fama accompagnano il Merito al tempio della Gloria, celebra le nozze Rezzonico-Savorgnan ed è in diretta relazione con il precedente, trasponendo in pittura un poemetto d’occasione dell’abate padovano Giuseppe Gennari. Il Merito, la Nobiltà, con la lancia in mano, e la Virtù, sontuosamente vestita, ascendono al tempio, di cui s’intravede solo il pronao, attraverso un piano inclinato di nuvole che trasborda dal cornicione, innestando un meccanismo simile a quello di una scala mobile che cattura i nostri sguardi e li coinvolge in un moto di risucchio verso l’alto. Nella nuvola più bassa, un puttino ci ricorda che il nome dei Rezzonico è compreso nel registro dell’aristocrazia veneziana, anche se solo da qualche decennio.
A Ca’ Rezzonico, provenienti da luoghi diversi, sono oggi visibili anche altre opere di Tiepolo. Fra queste, gli affreschi staccati della sua villa di Zianigo, cominciati nel 1759 e continuati dal figlio Giandomenico dopo la sua morte in Spagna e fino alla fine del secolo. Alle apoteosi celesti, ai virtuosismi scherzosi, alle nobili rievocazioni della Gerusalemme liberata, Giandomenico oppone prosaiche feste in maschera e grottesche avventure di Pulcinella, con una sensibilità decisamente più terrena e borghese. I tempi erano cambiati, l’èra della vecchia aristocrazia poteva dirsi finita anche a Venezia.

 

L’autore,[sta_anchor id=”vittorio” unsan=”Vittorio”] Vittorio Sgarbi[/sta_anchor]

Vittorio Sgarbi è nato a Ferrara. Critico e storico dell’arte, ha curato mostre in Italia e all’estero, è autore di saggi e articoli.
Nel 2011 ha diretto il Padiglione Italia per la 54a Biennale d’Arte di Venezia. Tra i suoi ultimi libri: L’Italia delle meraviglie. Una cartografia del cuore (2009), Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri (2010), Le meraviglie di Roma (2011), Piene di grazia (2011), L’arte è contemporanea (2012), Nel nome del figlio (2012), Il tesoro d’Italia (2013), Il punto di vista del cavallo. Caravaggio (2014), Gli anni delle meraviglie (2014), Dal cielo alla terra (2015), Rinascimento (con Giulio Tremonti, 2017). Presso La nave di Teseo ha pubblicato Parmigianino (2016), La Costituzione e la Bellezza(con Michele Ainis, 2016), Dall’ombra alla luce (2016).
“Quando Vittorio Sgarbi scrive, nelle sue pagine c’è la continua tensione per la scoperta. Ogni nuovo incontro con le opere è sempre scelta di far capire, di proporre prospettive nuove.”

Dalla prefazione di Arturo Carlo Quintavalle