Gli uccelli dalle ali di cenere

Gli uccelli dalle ali di cenere

Roberto Bolognesi

Editore: Youcanprint
Collana: Youcanprint Self-Publishing
Anno edizione:2017
Pagine:96 p., Brossura
EAN: 9788892675193

 

SINOSSI

 È un giorno come tanti e il medico di provincia Monsieur Lumeaux, tornando a casa dopo una visita a domicilio, viene colto dall’idea di entrare nella Cattedrale di Autun per osservarne la luce dell’alba. Nonostante vi sia entrato più volte, mai come in quella occasione osserva il riverbero delle vetrate, al punto che decide di scoprire l’artefice di un tale capolavoro. Per le sue ricerche si rivolge a Padre Auguste il quale, consultando gli archivi ecclesiastici, lo mette sulla pista giusta trovando finalmente un nome. Lucio Redor.
Il nome di Redor è legato a un passato non ben chiaro, e a una donna di nome Odette, bruciata al rogo con l’accusa di stregoneria. Nonostante siano trascorsi degli anni, d’un tratto la presenza della donna sembra tornare a farsi viva. Il figlio di Lucio, Flavio, n’è testimone, ma non sa chi sia veramente la strega perché il padre non ne ha mai parlato. Colpito da sogni e incubi in cui gli appare il suo volto, il ragazzo è sempre più perplesso e domanda spiegazioni. Lucio tace. Nessuno dei due immagina quale oscura vendetta si sta preparando, e quali rovinosi eventi sconvolgeranno le loro vite.

 

Come inizia il libro

I

Non udiva le voci di chi si trovava nei dintorni. Una tela di personaggi vivi per i loro sgradevoli odori di cibo, sterco, urina. Un dipinto animato dalle ricordanze passate. Una fessura tra due gonnelle apriva lo sguardo sul palco, oltre le persone. Cataste di legna e mucchi di fieno. Avvertiva la mano paterna come una collana fatta di pietra, e le spalle gravate da un peso che aveva il sapore della colpa. L’uomo incappucciato passò davanti alla pira; nelle sue orecchie esplose il silenzio dell’attesa. Un grido strozzato, un rantolo disperato venne udito come le note di un povero strumento sfibrato. A malapena poté scorgere quelle pupille nere fuoriuscire dalle orbite, i denti in file irregolari coprirsi di saliva schiumosa. Le altre bocche, mute, in una sorta di Annunciazione raffigurata con la pena e la paura. La pira s’accende, crepita, sfrigola. Il bagliore delle fiamme dà vita al quadro smorto. Chi esclama senza dire. La donna urla. Impreca. Melodia di un castigo inevitabile, mentre i presenti si tramutano in figure di gesso. Tra le urla. Vedimi! Vedimi! Vedimi! Dapprima il silenzio, adesso il lamento accorato. Diade musicale tra Cielo e Terra, coro del supplizio frutto della deliquescenza della ragione. Con i capelli in faccia e l’odio in bocca che io possa ritrovarmi in casa tua. Ciò che non poteva vedere, ora appare. Il viso contorto, abbruciacchiato dal fuoco. S’inargentano le medesime parole, mutandosi in un’improvvisa pasta vetrosa. Con i capelli in faccia e l’odio in bocca che io possa ritrovarmi in casa tua. Con i capelli in faccia e l’odio in bocca che io possa ritrovarmi in casa tua. E un soffice rintocco gualcisce tali parole, stirando al contempo le pieghe del sonno fino al risveglio.
Aprendo gli occhi restò ancora un po’ avviluppato in quell’incubo, prima di capire che non stava avendo luogo alcun rogo. Il suono della campana aveva annunciato la funzione del mattino. Si girò sulla schiena e osservò le travature del soffitto. L’alba attenuava il colore della notte, inguainandosi come un felino tra le fessure delle imposte; tale bagliore metteva in risalto il suo respiro che, per l’umidità, si trasformava in lievi sbuffi. Suo padre Lucio ronfava lì accanto. L’aria sapeva di quell’odore che le persone lasciano durante il sonno. Acido. Greve. Pungente. Caldo. Dopo aver sognato il rogo di Odette, avrebbe voluto coprirsi di quell’afrore per il resto della giornata. Da qualche parte, un gallo cantò. Si smosse dal suo sacco di paglia, mettendosi seduto a fissare gli scuri della finestra come se qualcun altro – e non lui – dovesse aprirli per far entrare il giorno. Il rogo della strega, la malefica, la seduttrice. Perché suo padre non diceva nulla? Tutto ciò lo metteva di malumore.
Nei pressi del suo pagliericcio, appesi a una stanga infissa nella parete, c’erano i suoi vestiti. Visto che sarebbero usciti per andare a bottega, non si preoccupò di accendere il fuoco bensì di frugare nella cassapanca vicino al tavolo, aprendo il sacco delle provviste. Un tozzo di pane nero e duro, semi di avena e del formaggio stagionato. Addentò il pane raffermo, deglutendo con fatica. In quell’istante suo padre si destò, stirando le braccia verso l’alto e biascicando più e più volte come se volesse pronunciarsi. Egli non tardò a prendere dal tavolo l’acciarino e la pietra, e tosto accese la candela di sego. Lucio preferiva il lume quando non c’era il sole perché – gli ripeteva in maniera petulante – ‘con la luce vedi anche la paura, figuriamoci le cose’. L’alone si espanse, indorando l’aria e poco più. Strabuzzando gli occhi color dell’ambra il padre s’alzò e, vestitosi lesto, uscì di casa sbattendo la porta. Dalla parete il figlio ascoltò il suono sordo dei suoi passi dirigersi verso sinistra, salire gli scalini della loggetta – che univa la loro casa con quella a fianco – e imprecare mentre si toglieva le brache per farla. A differenza di altre volte non era necessario che si sforzasse di distogliere le orecchie, magari battendo una ciotola sul tavolo; con quell’incubo addosso, abbarbicato come un uccello predatore sulle spalle, non esistevano altri rumori in grado di distrarlo.
Era quella voce, muta litania che riecheggiava nella sua testa. Con i capelli in faccia e l’odio in bocca che io possa ritrovarmi in casa tua. Passeggiava nella stanza, sentendosi il volto impallidire e una sensazione languorosa affaticarlo come dopo un grosso sforzo. Ad un certo punto i suoi occhi vitrei scorsero il padre rientrare, e chiamarlo per uscire.
Lasciata la casa si diressero verso la fornace. Udirono la campana rintoccare ancora una volta, e con un sorprendente sincronismo gli usci iniziarono ad aprirsi. Ogni loro passo era accompagnato da quegli spiacevoli rumori che annunciavano il risveglio. Dalle mura delle abitazioni s’affacciavano sbadigli, voci rauche, rutti, peti; le imposte si spalancavano, seguite dallo scroscio degli escrementi gettati in strada; alcune donne spazzavano via dalla porta gli avanzi del giorni addietro, per il resto il loro cammino s’univa a quello dei randagi, dei maiali e delle galline che pulivano il selciato mangiando ossa e merda. Sbucarono sulla piazza della cattedrale. Quantunque sempre turbato dai suddetti pensieri, Flavio non poté fare a meno di sollevare il mento e ammirare quella magnifica costruzione mascherata ancora dalle impalcature in legno. Dietro la guglia il cielo che si schiariva creava un vertiginoso contrasto. Erano cresciuti assieme, lui e la cattedrale, e adesso essa toccava il cielo!
“Cosa ti accade, figlio mio?” domandò Lucio, afferrandogli il braccio senza smettere di camminare.
Egli si riscosse e chinò il capo, mormorando qualcosa. Abituato a vedere il pallore su quel viso, costui non aggiunse altro benché il suo volto adusto, incline a una marmorea tristezza, sembrava dimostrare una certa preoccupazione.
Una volta entrati nella fornace, Flavio si mise tosto all’opera. Indossò i guanti e il grembiule di cuoio, poi andò a gettare nuova legna in quel bislacco caminetto di forma conica. Grazie alla paglia le scintille scatenarono subitanee le fiamme; avvertendo il forte calore, s’allontanò dal loculo tornandosene al tavolo da lavoro dove giacevano alcune lastre di vetro colorate. Con la mano tolse l’eccesso di polvere vetrosa che, alzandosi nell’aria, lo fece tossicchiare un poco. Aspettando che il focolare bruciasse così tanto da poter lavorare l’impasto, Lucio mescolava in un calderone di ferro la cenere, la sabbia e l’acqua per creare la mistura. L’ambiente sapeva di metallo e sudore. Pian piano il mattino scolpiva quelle due figure in un forte e caravaggesco chiaroscuro, finché venne il momento di cuocere le materie prime. Entrambi sollevarono il calderone, e con fatica lo adagiarono sopra il falò. Non rimaneva che attendere.
Il padre andò finalmente ad aprire la porta, facendo entrare uno spicchio di luce. In quel momento lo sguardo gli cadde su Flavio che, dietro il banco, era intento a spezzettare le lastre seguendo i disegni. Fece due passi verso di lui, attirato dal gioco di iridescenze che la luce mattutina produceva sul vetro.
“Osserva i colori” si rivolse al figlio “Il vermiglio della veste del santo come appare luminoso, similmente il verde e l’azzurro, come una pioggia sul selciato paiono riflettere il mondo”.
Tacque, accorgendosi che l’espressione di Flavio dava adito a un senso di mortificazione; dunque, cercò di porre rimedio:
“La lavorazione è eccellente, caro figlio mio. Ma rammentati che il vetro riflette la luce di Dio, e acciocché sia possibile bisogna lavorarlo e lavorarlo, renderlo perfetto ancora”. Accompagnò tali parole con una stretta al braccio.
Flavio lo guardò. Sembrò sorridergli con gli occhi, ma il suo cuore palpitava d’angoscia. Dio solo sa se avrebbe trovato il coraggio di confessargli cosa lo tormentava! Negli occhi del padre non vide altro che la sua burbera benevolenza, una bonarietà cinta da una sofferenza che sembrava albergare in lui dalla nascita. Un sottile male di vivere che, a piccole dosi, gli era stato trasmesso per osmosi e di cui – non aveva bisogno di sincerarsene – era certo non avesse a che fare con la sua defunta madre. Che tutto ciò – in maniera imperscrutabile – fosse legato al sogno, a quello spaventevole spettacolo a cui aveva assistito?
Si rese conto che s’era lasciato andare a troppe fantasticherie, quindi abbassò di nuovo gli occhi e riprese la pinza in mano. Con la coda dell’occhio scorgeva Lucio, la sua figura un po’ ingobbita, con le mani intrecciate dietro la schiena e la testa immobile sul calderone. Operava sempre in tal modo, fissando con tenacia la materia; doveva vederla trasformarsi e osservarne con attenzione ogni minima sfumatura di colore. Era solito ripetergli che, in essa, non vi era solamente il grezzo materiale terreno; procedendo secondo formule che solo un mastro vetraio poteva conoscere, nel crogiuolo si dissolveva il corpo medesimo della persona coagulando la materia luminosa. Si scioglieva l’involucro solidificando lo spirito vitale. Talvolta definiva il processo di cottura del vetro Opus Magnum. Questo come altri termini che il padre usava nelle sue improvvisate dissertazioni gli suonavano strane, ragion per cui non era mai stato capace di capire veramente ciò che suo padre voleva dirgli. A volte guardare in quegli occhi era come sentire la forza di una grande quercia. Il sentore tuttavia che ci fosse altro, qualcosa di sconosciuto, non lo abbandonava mai.
Col proponimento di allontanare le angustie, profuse ogni energia nel duro lavoro. Le ore della cottura e della fase successiva del taglio permisero a Flavio di tenere a bada la mente; passato mezzodì, nelle ore pomeridiane, finì di cesellare ogni tassello di vetro per poi incollarli fra loro a formare le figure di ciascun disegno. Nel frattempo il padre, sotto l’effetto dei suffumigi e del calore del crogiuolo, aveva cominciato a mormorare lodando ciò che rimestava sul fuoco. È vero che – ad un certo punto – la bottega fu satura di vapori acri e talmente densi che loro stessi faticavano a vedere i contorni della stanza; per tale ragione sollecitamente avrebbero di lì a poco chiuso le imposte, quando un tonfo a terra e delle grida donnesche fecero sì che interrompessero ciascuna cosa all’istante.
Se si fosse trattato di un carro rovesciato, di un cavallo azzoppato o di un’impalcatura franata certo era che quelle strida sciagurate non si sarebbero diffuse in ogni angolo della piazza. Posati gli strumenti Flavio s’affacciò sulla strada, e suo padre lentamente gli s’avvicinò. A sinistra, sotto un loggiato, due signore s’erano drizzate in piedi, portandosi la mano alla bocca per la vista innominabile. Poco distanti da costoro un paio di cani, a orecchie basse, presero a camminare descrivendo un cerchio, proprio come quando si sentono spaventati, mentre due uomini accorrevano sul luogo dell’incidente reggendosi la berretta in testa.
Egli uscì dalla bottega, seguendo i passanti. Girando attorno alle mura dell’abside, ecco che si trovò davanti a uno stuolo di persone vociferanti, tale che era impossibile vedere cosa fosse successo; ciascuno di loro bofonchiava qualcosa, e il brusio era così forte da superare lo schiamazzo di un gruppo di bambini che infastidivano un maiale. I cani latravano, nervosi. Non appena due donne indietreggiarono, visibilmente atterrite e facendosi il segno della croce, Flavio approfittò di quel varco per avvicinarsi e guardare. Le sue labbra carnose si aprirono all’istante come se, in bocca, avesse avuto una molla; sul volto color cenere comparve un’espressione sconvolta. Era un morto, quel che stava rimirando. Apparteneva a un giovane operaio che era caduto. Ancor più sgradevole e fonte di sdegno per tutti era la postura in cui era rimasto, ovvero con le gambe piegate verso l’interno, le ginocchia scoppiate e le braccia allargate a guisa di Gesù inchiodato alla Croce; ebbe l’ardire di osservare la faccia del poverello. Due occhi sgranati verso il cielo, una bocca semiaperta che scopriva una fila di denti, coperti da grumi di sangue, e un’aureola di sangue intorno alla testa. Decise di distogliere lo sguardo, segnandosi come avevano fatto gli altri. I passanti si diradarono in breve tempo, il capannello si sciolse e le donne tornarono a casa, mormorando preghiere per il defunto. La morte soleva essere una protagonista nera e discreta a un tempo, similmente a un uccello si calava fra gli abitanti con gran disinvoltura. Era già accaduto in passato, pensò Flavio girando le spalle al morto. Forse che il Signore intendeva far pagare un dazio a noi peccatori che sfioravamo il cielo suo? Colto da questa riflessione, udì l’arrivo del gridatore dei morti. “Operaio morto! Operaio morto! Messer Claude è morto!” esclamava a voce alta, intanto che altri due uomini prendevano il giovane adagiandolo su un lettino per portarlo via.
Flavio prese le distanze dal luogo dell’incidente. Come cercando un poco di ristoro da quell’aria metifica, passeggiò alquanto sconsolato fin quando i suoi occhi non scorsero il sopraggiungere di carri che, a giudicar dalla mercanzia ben coperta, doveva trattarsi di nuove provviste. Lo zoccolio e il cigolio delle ruote si facevano sempre più forti. Egli li raggiunse, e come lui altre persone lasciarono le proprie attività, chi addirittura la latrina, apprestandosi ai carriaggi. Appena il pulviscolo alzato dagli zoccoli si fu dissolto, i mercanti scesero vantando le merci a gran voce. Dimentico di tutto, ma non del padre che era rimasto a bottega, comprò un pezzo di formaggio per pochi soldi dopodiché vide bene di fare ritorno, lasciando quella calca rumorosa e odorifera. Con l’involto sotto braccio, compiendo falcate, s’affrettò a percorrere il perimetro della cattedrale sotto la pioggia di voci e il martellare degli operai, temendo un poco che ne cadesse un altro.
“Chi è morto?” domandò suo padre, vedendolo arrivare.
Flavio gli passò prima il formaggio, poi lo guardò con la sua solita espressione.
“Il giovane Claude”.
Lucio gettò gli occhi oltre le spalle del figlio, pensoso.
“Conoscevo suo padre, il tagliatore di pietre Lucien” aggiunse mesto “Pregheremo per la sua anima”.
“Ce ne andiamo?” chiese Flavio, notando il chiavistello del portone.
Sovrappensiero il padre si sistemò l’involto sotto l’ascella e fece per incamminarsi. Egli non tardò ad accompagnarlo, chiedendosi se quel silenzio fosse per la tristezza che tale notizia gli aveva procurato.
Le ombre sul selciato s’allargavano come grosse pozze d’acqua; alcune ragazze, ciarlando alla finestra, cominciavano a ritirare le tende. Il crepuscolo era vicino e la luce andava nascondendosi, alla maniera di un timido animale. Passando nei pressi della mura videro i mercanti dirigersi verso la grande porta che, dopo il vespro, sarebbe stata chiusa per l’intera notte. Là vicino c’era un pozzo, e tosto venne in mente a Lucio che avrebbero avuto bisogno di una tinozza d’acqua fresca per lavarsi, giacché non era potabile.
“Rammenta di prendere dell’acqua per i nostri bisogni” gli disse il padre.
Flavio annuì, mentre osservava un mendicante col bastone claudicare proprio verso la sorgente. Lo vide fermarsi, appoggiare le mani sul bordo di pietra e sporgersi. Seguirono una serie di rumori con la bocca che non gli piacquero affatto, poi lo sentì sputare. Storcendo la bocca schifato, sollecitò il padre acciocché lo mandasse ad attingere acqua al pozzo fuori le mura, ché la sorgente era sfruttata dai contadini per il lavoro nei campi. Acconsentì, ingiungendogli di non attardarsi perché presto avrebbe fatto buio.

 

L’AUTORE

[sta_anchor id=”roberto” unsan=”Roberto”]Roberto Bolognesi [/sta_anchor](Massa Marittima, 1982) ha esordito a 18 anni con il primo romanzo, L’infelice (2002, Michele di Salvo Editore).

Hanno seguito:

Il cuore perduto (2004), ambientato nella Firenze del Rinascimento.
Daemonium (2006)
Le rovine illuminate (2007) – finalista al concorso Jacques Prevert 2010.
Tra due mondi (2009)
Fugace (2010)
Fino all’ultimo respiro (2010)
Gott mit uns (2012) – vincitore Targa ORO nella categoria degli autori self-publishing.
Postumano (2013)
Il filo rosso (2014)
Chi sei? (2015)
Il sapore della fine (2015)
Origini (2016).
Gli uccelli dalle ali di cenere (2017)