Il patto dell’abate nero. Secretum saga

Il patto dell’abate nero. Secretum saga

Marcello Simoni

 

Editore: Newton Compton
Pagine della versione a stampa: 328 p.
EAN: 9788822720580

  • Gialli, thriller, horror
  • Narrativa italiana
  • Gialli storici

 

SINOSSI

13 marzo 1460, porto di Alghero. Un mercante ebreo incontra in gran segreto l’agente di un uomo d’affari fiorentino, messer Teofilo Capponi. Vuole vendergli un’informazione preziosissima: l’esatta ubicazione del leggendario tesoro di Gilarus d’Orcana, un saraceno agli ordini di re Marsilio, scomparso ai tempi di Carlo Magno. Venuta per caso a conoscenza della trattativa, Bianca de’ Brancacci, moglie di Capponi, intuisce che suo padre era coinvolto nella ricerca di quel tesoro prima di morire. Elabora così un piano e per realizzarlo chiede aiuto a Tigrinus, il noto ladro con cui ha già avuto a che fare. Tigrinus dovrà partire alla volta di Alghero e, spacciandosi per Teofilo Capponi, dovrà mettersi sulle tracce dell’oro di Gilarus e scoprire anche la verità sulla morte del padre di Bianca. Nel frattempo, a Firenze, Bianca dovrà mantenere a tutti i costi il segreto sulla missione affidata al ladro, nonostante i sospetti del capo dei birri e di Cosimo de’ Medici. Ma in pericolo, a Firenze, c’è anche il tesoro più grande che Tigrinus nasconde: la Tavola di Smeraldo…

 

1

Firenze, quartiere di Santa Croce. 25 marzo

Vicino all’abbazia della Santa Vergine, a circa cento passi dal suo altissimo campanile, sorgeva il palazzo della famiglia Capponi. Incastonato quasi a forza tra tante botteghe di legatori e pergamenai, rivolgeva la sua facciata alla via del Podestà, suscitando riverenza in chiunque notasse sul portale lo stemma dell’Arte del Cambio. Ma se per caso un curioso, in quel mattino gravido di pioggia, avesse sbirciato poco più in alto, verso un piccolo balcone del primo piano, sarebbe rimasto colpito da una giovane donna seduta con una gamba penzoloni, alla guisa di un monello, con un libro in grembo.
Non che Bianca de’ Brancacci disdegnasse assumere un contegno da signora, ma negli ultimi tempi le riusciva sempre più difficile. La filatura l’annoiava, il ricamo le pareva un passatempo da vecchia e così pure andare a messa, ragion per cui aveva scelto di dedicarsi alle Istorie de Tristano. Un volume donatole da Angelo in un tempo in cui lui le aveva voluto bene. O almeno aveva finto di farlo.
Al pensiero del cugino, la donna chiuse il libro amareggiata e osservò il brulicare di gente verso Porta Ghibellina. Il grigiore dei nembi sembrava aver contaminato ogni cosa, spingendo i bottegai ad accendere i primi fuochi e i carrettieri a spronare le bestie. Lo spettacolo, tuttavia, fu sufficiente a fugare i brutti ricordi.
Bianca aveva sempre amato quel mondo operoso, dal picchiettare dei maniscalchi al vociare dei marinai lungo le sponde dell’Arno. Come pure il coraggio dei mercanti che portavano le merci, la moneta e la lingua di Firenze fino ai confini del mondo. Un’impresa capace di far impallidire le canzoni degli eroi leggendari e di cui lei, seppur femmina, aveva sempre sognato di far parte.
Rivolse un saluto sfrontato a un paio di anziane matrone intente a fissarla con disapprovazione, poi ripescò il libro scivolato tra le pieghe della gonna con l’intenzione di riprendere la lettura. Ma un particolare la costrinse a tenere gli occhi puntati sulla strada.
Si trattava di due uomini appena sbucati da un vicolo e diretti verso il palazzo. Il primo era un individuo dall’aspetto losco, avvolto in un mantello da viaggio e con una bisaccia a tracolla. Il secondo, agghindato come un pavone, era invece messer Teofilo Capponi.
Bianca si meravigliò nello scorgere il marito a quell’ora del mattino. Di solito Teofilo usciva di casa all’alba e tornava soltanto dopo compieta. Sempre solo, per giunta. Mai una volta che gli fosse capitato di portare subalterni o soci in affari entro le mura domestiche, giacché egli destinava quel genere d’incombenze alla Loggia dei Pisani, sede ufficiale dell’Arte del Cambio.
Ripiegando d’istinto nella penombra di una bifora, Bianca continuò a spiarlo finché non lo vide fermarsi sotto il balcone e picchiare al battente d’ingresso. Un attimo dopo, un famiglio gli aprì senza indugio.
«Dov’è la mia sposa?», lo sentì chiedere.
«Nelle sue stanze», rispose il servo.
«Che resti là», ordinò secco Teofilo, mentre entrava con il misterioso compare al seguito.
A quel punto una comune padrona di casa avrebbe iniziato ad agghindarsi nell’eventualità che l’ospite volesse fermarsi a pranzo. L’indole sospettosa di Bianca la indusse invece a uscire di soppiatto dalla camera da letto per cercare di scoprire cosa stesse accadendo.
Il piano superiore del palazzo era cinto da un ballatoio interno dotato di un parapetto in legno, attraverso le cui grate si poteva osservare di nascosto il pianoterra. La donna non esitò a rannicchiarsi e, tenendo celata la propria presenza, seguì le figure dei due uomini che, superato l’atrio, avevano raggiunto la sala conviviale nel lato posteriore dell’edificio.
In quella posizione, Bianca si sentiva ridicola e goffa, senza contare che se avesse incontrato un servo sarebbe stata costretta a spiegare quel suo strano comportamento. Ma pur di tenere d’occhio il marito, non esitò a procedere ingobbita e a sporgersi oltre la balaustra delle scale che portavano al piano sottostante.
Fu allora che vide Teofilo colpire con uno schiaffo l’altro uomo. Il gesto le parve così violento che si aspettò ne scaturisse una lite.
Il viandante invece si limitò a massaggiarsi la guancia, allargando la bocca in uno di quei sorrisi che s’intravedevano oltre gli ingressi delle peggiori taverne. «Anche se ve la prendete con me», ghignò, «le sue labbra resteranno serrate come la fica di una suora».
«Non siate volgare in casa mia!», l’ammonì Teofilo, minacciando di colpirlo una seconda volta.
«A meno che…», insinuò l’altro, senza mostrare alcun timore.
Messer Capponi ritirò la mano. «A meno che non mi rechi io stesso ad Alghero», aggiunse con una nota di sconforto. «Ma per chi mi avete preso? Non intendo certo fare la fine di Teodoro de’ Brancacci».
Al risuonare di quel nome, Bianca dovette soffocare un’esclamazione. Teodoro de’ Brancacci, suo padre, era scomparso in Francia da oltre dieci anni a seguito di un disgraziato incidente. O così almeno le aveva raccontato lo zio, Giannotto Bruni, che si era prodigato per crescerla come una figlia prima di morire con un pugnale conficcato nelle viscere.
Un improvviso fragore la colse di soprassalto, avvisandola che aveva appena iniziato a diluviare. Il tetto risuonava come la pelle di un tamburo.
«Forse vostro suocero è ancora vivo», stava dicendo l’uomo col mantello da viaggio.
«Ne dubito», ribatté Teofilo. «Scommetto cento fiorini che l’ha ucciso quell’ebreo bastardo».
«In tal caso, Simeone de Lunell vi avrebbe fatto un piacere».
«Tacete, per Dio».
L’uomo lo squadrò con una smorfia di derisione. «Se fra queste mura vi fate tanti riguardi», osservò, «perché non mi avete ricevuto alla Loggia dei Pisani?»
«Perché certi discorsi devono restare tra noi», rispose Capponi, guardandosi intorno con circospezione.
Fu allora che, per un istante, i suoi occhi incrociarono quelli di Bianca.
La donna si chinò di scatto e tornò a nascondersi dietro il parapetto. Forse suo marito non aveva fatto in tempo a scorgerla, si disse. Forse era riuscita a eclissarsi abbastanza velocemente da non farlo insospettire.
Teofilo tornò a rivolgersi all’interlocutore come se nulla fosse. «Avete almeno la lettera?».
L’uomo annuì ed estrasse dalla bisaccia un foglio arrotolato.
Il marito di Bianca se la fece consegnare. «Restate nei paraggi», concluse, tradendo un’improvvisa premura. «Potrei avere ancora bisogno di voi».
Poi, non appena l’ebbe congedato, guardò di nuovo verso l’alto. E imboccò la scala diretta al piano superiore.