IL VOLTO DI AYANAMI: i simulacri femminili negli animanga – Terza parte

IL VOLTO DI AYANAMI: i simulacri femminili negli animanga

di Claudio Cordella

Editing Luisa Paglieri

 

TERZA PARTE

Buongiorno a tutti i lettori! Ricordate dove ci eravamo fermati, la settimana scorsa? Riporto uno stralcio, per riallacciarci all’argomento trattato:

Una perniciosa alleanza tra potere religioso e mass-media, in cui il popolino credulone viene raggirato da miracoli fasulli, effetti speciali realizzati ad arte negli studi televisivi. Una tirannia bigotta che ha creato delle ginoidi, chiamate Sky Doll, per permettere ai sudditi maschi della papessa Lodovica di sfogare la loro lussuria senza commettere peccato. Su Papathea solo le Sky Doll sono autorizzate dalle corrotte gerarchie ecclesiastiche a poter indossare dei vestiti sexy, inoltre di norma vengono sfruttate per compiere i lavori ritenuti più degradanti, tra i quali spicca quello della prostituta.

Federica Leva

 

La schiavitù però non è l’unico destino che attende i simulacri, nel caso della protagonista della novella The Ship Who Sang (La nave che cantava), la trasformazione in organismo cibernetico assume una valenza decisamente positiva. L’autrice di quest’ultima novella, Anne McCaffrey (1926-2011), sottolinea come tale metamorfosi permetta alla giovane Helva di sopravvivere nonostante sia nata con un corpo deforme. Le vengono donate nuove capacità psicofisiche, le quali le consentono di svolgere incarichi difficili quanto importanti, senza che per altro la sua nuova condizione intacchi né la sua femminilità, né tanto meno la sua umanità. Non siamo difronte ad un semplice cervello in una scatola, collocata nelle viscere di un vascello interstellare, Helva è qualcosa di più, essendo capace di provare amore per l’astronauta che le fa da partner (arrivando quasi ad impazzire dal dolore dopo la sua morte), così come di coltivare la sua passione per il canto. Come ha ben sintetizzato Donna J. Haraway, una figura cardine nello studio dei cyborg, le molteplici riflessioni che ci vengono offerte dalla McCaffrey su di un piatto d’argento toccano con grande abilità temi di carattere bioetico di scottante attualità, questioni di genere e cibernetica: «The Ship Who Sang (1961), racconto pre-femminista di Anne McCaffrey, esplora la coscienza di un cyborg, di un ibrido composto dal cervello di una ragazza e da un macchinario complesso, costituitosi dopo la nascita di una bambina gravemente handicappata. Genere, sessualità, incorporamento, tecnica: il racconto ricostruisce tutto questo». Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, 1991; tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano 1995, p. 79.

Si consideri poi come il Maggiore Motoko Kusanagi, l’indiscussa protagonista del manga cyberpunk Kōkaku Kidōtai (Ghost in the Shell) di Masanori Ota (meglio noto con il nome d’arte di Masamune Shirow), il cui passato veniva lasciato sostanzialmente in ombra dalle tavole del fumetto, nelle sue più recenti versioni animate diventa una bambina simile ad Helva, costretta sin dall’infanzia a rinnegare le sue radici biologiche umane. Se nell’originale cartaceo di Shirow si intuiva che il Maggiore avesse abbandonato di sua scelta il proprio corpo umano, per oltrepassarne i limiti e vivere una vita al di fuori dell’ordinario, similmente nell’omonimo lungometraggio d’animazione di Mamoru Oshii del 1995 non ci venivano date ulteriori spiegazioni. Seppur la pellicola di Oshii, un vero gioiello cinematografico, ha l’ulteriore pregio di mostrarci le diverse fasi del montaggio del corpo di Motoko, in parte basate su alcune tavole di Shirow, nelle quali però ci veniva mostrata la nascita di un’altra cyborg dalle fattezze femminili. Al contrario nell’anime televisivo Kōkaku Kidōtai Stand Alone Complex (Ghost in the Shell: Stand Alone Complex) è un incidente in giovane età che costringe i medici ad operare Kusanagi per salvarle la vita, obbligandola così a convivere e a crescere in una corporeità sintetica. Qualcosa di simile avviene anche nel kolossal hollywoodiano del 2017 Ghost in the Shell, diretto da Rubert Sanders, seppur in questo caso arriviamo a scoprire come la trasformazione in cyborg sia parte di una ragnatela di menzogne, intessuta al preciso scopo di nascondere alla protagonista la sua reale identità e a manipolarla come una marionetta.

Ad ogni modo siamo sicuramente di fronte ad un’esistenza posta sempre al di là dell’ordinario, un’eccezionalità che gli OAV della serie Kōkaku Kidōtai ARISE (Ghost in the Shell: Arise), a loro volta collegati al film Kōkaku Kidōtai: shin gekijōban (Ghost in the Shell: The Rising) che ne completa l’arco narrativo mentre si riallaccia al lavoro di Oshii, non hanno fatto che ribadire ancor di più (in pratica rendendola assai simile alla protagonista della novella della McCaffrey). Tali condizioni particolarissime servono a mettere uno iato tra quest’eroina, segnata da un’esistenza vissuta in simbiosi con l’alta tecnologia, dal resto dell’umanità. Predisponendola ad un futuro diverso da quello di tutti gli altri, difatti dinnanzi a lei si dischiudono orizzonti evolutivi post-umani che noi comuni mortali non possiamo nemmeno sognarci.

Il che però ci pone degli interrogativi di non semplice soluzione, poiché se un automa, biologico o cibernetico che sia, se ben costruito e altrettanto ben programmato può essere considerato un simulacro, un nostro sosia (potenzialmente pericoloso), che cos’è allora un cyborg? Rappresenta solo un insolito ibrido, tra l’umanità e le sue macchine, oppure è persino qualcos’altro? Un simulacro che tende a rassicurarci con le sue origini umane, come avviene per Alita e Motoko, ma che in realtà è ormai proiettato verso un domani che non ha più nulla a che fare con quello dei membri della specie Homo sapiens. In effetti non sempre la figura del cyborg è trattata in maniera così ottimista, a tal proposito i guerrieri cibernetici concepiti dalla fervida immaginazione di Shotaro Ishinomori (1938-1998), modificati loro malgrado in combattenti sintetici nel manga Saibōgu 009 (Cyborg 009), potrebbero esser un buon esempio. Questi paladini hi-tech, noti nel nostro paese sopratutto per l’anime Saibōgu 009 (Cyborg-I nove supermagnifici) del 1979-1980, hanno scelto intenzionalmente di sfidare potenti organizzazioni criminali e sventare complotti ai danni della pace mondiale, ciò nonostante nessuno di loro ha potuto scegliere liberamente di diventare un cyborg, l’unica cosa che sono stati in grado di fare è stata quella di accettare una situazione impostagli con la forza, trovando il proprio riscatto in un agire morale degno di un essere umano.  Si pensi anche a Ginga Tetsudō 999 (Galaxy Express 999) di Leiji Matsumoto, all’interno della quale hanno grande importanza sia le suggestioni ricavate dalla narrativa fantastica di Kenji Miyazawa (1896-1933), tanto quanto le riflessioni relative ad una possibile meccanizzazione dell’umanità. A tal proposito si considerino gli indiscutibili legami che sussistono tra il Galaxy Express 999, il capolavoro di questo fumettista, con la struggente novella Ginga tetsudō no yoru (Una notte sul treno della Via Lattea), pubblicata postuma dopo la scomparsa di Miyazawa. In ambedue i casi la tematica del viaggio siderale, compiuto in entrambe le opere a bordo di un inconcepibile treno fiabesco, si sposa alla perfezione con riflessioni di matrice esistenziale riguardanti la vita e la morte. Siamo di fronte al pellegrinaggio di una giovane anima che deve crescere e maturare, imparando ad aver consapevolezza di sé, nonché del dolore che accompagna ogni esistenza terrena, predestinata per natura alla mortalità e per di più al vagare in una realtà imperfetta. Una notte sul treno della Via Lattea inizia con un ragazzo povero, separato dal padre che è stato costretto a lasciare la famiglia per lavoro, bistrattato dai coetanei per di più con una madre ammalata di cui deve occuparsi. Dileggiato persino nel corso di un giorno di festa, compreso dall’unico bambino del paese che reputava essere suo amico, dopo una fuga precipitosa a rotta di collo si ritrova magicamente a bordo di uno stranissimo convoglio ferroviario, guarda caso con quest’ultimo come compagno di viaggio. Solo nel momento in cui facciamo ritorno sulla Terra comprendiamo come la loro sia stata una peregrinazione ultraterrena, un’odissea dal quale solo uno dei due ha potuto far ritorno, il secondo è dato per disperso in un fiume e si dispera che si possa ritrovarlo ancora in vita. Siamo difronte ad un genere di malinconia che Gisaburo Sugii ha infuso nel suo lungometraggio animato del 1985 Ginga tetsudō no yoru (Night on the Galactic Railroad), un adattamento fedele della novella di Miyazawa (nonostante la trasformazione dei protagonisti in gatti antropomorfi), così come del resto lo ritroviamo nel Leijiverse di matrice matsumotiana. Ecco allora che Galaxy Express 999, pur aprendosi in modo ancor più drammatico, con degli esseri umani cacciati come animali da un gruppo di cyborg, dimostra di avere delle finalità assai simili. Al di là delle somiglianze relative alle trovate impiegate, come il treno meraviglioso e l’odissea interstellare, altre ben più profonde riguardano l’analogo intento educativo e il dolente lirismo melanconico che caratterizza entrambe le opere. A tal proposito, immagini intrise di melanconia e struggimento non ci vengono affatto lesinate da parte di Matsumoto, come quando ci viene mostrato il cimitero di Plutone. Una distesa ghiacciata all’interno della quale vengono conservati i corpi di coloro i quali hanno deciso di farsi meccanizzare, abbandonando le loro fattezze di carne per trasformarsi in uomini-robot virtualmente immortali. Probabilmente lo stesso corpo originale della bionda e longilinea Maetel (nota al pubblico italiano della serie TV come Maisha), la compagna di viaggio dell’orfano Tetsuro (o Masai) Hoshino, è conservata all’interno di questo camposanto. Una scelta che alcuni, dopo aver assaporato per po’ di questa lunga vita, rimpiangono amaramente. Ciò nonostante, dato che per loro è impossibile ritornare sui propri passi, l’unica cosa che possono fare è recarsi presso quei feretri congelati per piangere quel che hanno irrimediabilmente perduto. I rapporti tra gli Homo sapiens e simulacri, anche quando non toccano le corde del conflitto uomo/macchina, così come avviene nei capitoli più drammatici del Leijiverse e in The Terminator (Terminator) di James Cameron, non è detto che siano idilliaci e privi di problemi. In Purezensu (Presence), cortometraggio del regista Yasuomi Umetsu compreso nel film antologico Robotto Kānibaru (Robot Carnival), il protagonista è un curioso ometto, il quale lavora in una gigantesca fabbrica disumanizzante, costantemente seguito da orologi volanti che gli ricordano i suoi impegni, sposato con una manager di successo che gli incute soggezione. Ufficialmente a favore dei diritti delle donne, il nostro in realtà ha in animo idee ben diverse, invidiando le capacità manageriali della consorte, arrivata ai vertici di una grande società. Questo maschilismo latente, da nostalgico della società patriarcale, procede di pari passo con un acuto infantilismo. Avendo avuto, quantomeno a suo dire, una madre poco affettuosa è ora alla ricerca di un surrogato materno.

Un simile frustrato, il quale ha l’hobby di costruire giocattoli in una casupola nel bel mezzo di una foresta, assembla un robot dalle fattezze femminili. Quest’ultima dimostra ben presto di essere cosciente e di essersi innamorata di lui, spaventando così il suo creatore, non gradendo che quello che reputava essere un mero balocco dimostri di avere consapevolezza di sé. Quindi decide di distruggerla, facendola la pezzi. Sfumando nel realismo magico, Presence si conclude diversi decenni dopo, con tanto di apparizioni dello spettro di questa donna meccanica rottamata, pronta a condurre il suo aggressore in una dimensione ultraterrena. Ecco allora che personaggi ambigui e artificiali, posti in una crepuscolare zona d’interfaccia tra ciò che è umano e quel che invece non lo è, spiccano grazie alla loro intrinseca ambiguità. Taluni, così come avviene per la Rei Ayanami dell’anime Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno, assurgono direttamente al rango di divinità dell’Olimpo dell’immaginario fantascientifico transnazionale. Rei, dall’aria lunare e attonita, incapace di provare emozioni e di comprendere il suo prossimo, con i suoi spalancati occhi rossi e un’incarnato innaturalmente pallido, tradisce sin da subito le sue ascendenze artificiali. A voler azzardare un’interpretazione iconologica, potremmo dire che il candore della sua epidermide sia un riferimento alla sua giovinezza, nonché un richiamo a ben precise norme estetiche della tradizione nipponica. La sua condizione però non è quella di un’ordinaria adolescente, Rei non è una vera albina (i suoi capelli sono di un assurdo grigio-azzurro), di conseguenza le sue inquietanti iridi purpuree non sono un sintomo di albinismo quanto piuttosto forse rappresentano una spia di anormalità genetica. Un segno che funziona da campanello d’allarme, un po’ come avviene con gli occhi fissi e spenti dell’Olimpia di Hoffman, il quale ci rivela indirettamente la segreta natura di costei, clone della madre di Shinji Ikari, ragazzino infelice e problematico. Tra l’altro Rei non è una mera copia di questa giovane donna, quanto piuttosto una sua versione modificata, con tanto di genoma arricchito con il DNA proveniente da una di quelle misteriose creature note come Angeli. Al contempo la questione potrebbe essere assai più complicata di così, si tenga ben presente come nella cultura giapponese tra bianco e rosso esista una contrapposizione cromatica attentamente codificata: «[…] opposizione simbolica – quella fra un colore (il rosso) e un noncolore (il bianco) – che ribadisce la dicotomia fra impurità e purezza, fra sangue e sperma, fra sessualità e fertilità. Bianco è il colore «virtuale», la luce che dà vita a ogni colore. Segno di santità, il suo candore e la sua luminosità sono specchio della perfezione dell’ordine conoscitivo […] e dell’ordine morale […]. Il bianco contiene in potenza le gradazioni dei colori, tutte le assorbe e le sublima nella sua immutabilità. Bianco è l’eterno. […] Rosso invece è il colore per definizione, simbolo affascinante e aggressivo del disordine delle passioni che non conoscono regola. […] è simbolo del tempo, è il mondo effimero dell’esprimersi dei sensi, del liberarsi dei sentimenti. È il colore, tutto femminile, della sessualità sterile: infatti è tradizione che lo scelgano le ragazze non sposate o le geisha nei loro kimono». Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino 2014, p. 60.

Bianche sono le vesti dell’asceta così come quelle dell’imperatore però le miko, le fanciulle che ricoprono il ruolo di sacerdotesse nei templi scintoisti, indossano vesti bianche e rosse. Che Ayanami, vergine nata in modo innaturale tramite la clonazione dalle cellule di una donna scomparsa, a suo tempo madre e sposa, con il viso esangue e i suoi bizzarri occhi rossi sia una sorta di nuova specie di miko? Simbolo della genesi di una nuova era ricolma di contraddizioni, all’interno della quale la spiritualità non è più scindibile né dalla scienza, né dalla tecnologia, da qui la necessità di farsi rappresentare da un apposito simulacro. All’onor del vero, così com’è spiegata all’interno dell’ingarbugliata trama di Evangelion di Anno, l’esistenza di costei è parte integrante di un progetto volto all’evoluzione artificiale del genere umano in nome della sua futura sopravvivenza. Un piano ambizioso in cui i linguaggi della teologia, della mistica e della biologia si fondono inscindibilmente tra loro, il quale ha annoverato tra i suoi primi frutti proprio la sopracitata Ayanami. Accusata, guarda caso, da una coetanea, l’irascibile Asuka Soryu Langley, non solo di essere un’allieva modello (criticando in tal modo preciso e affidabile di fare le cose del clone) ma di non essere una persona, accusa che le muove con rabbia nel corso del ventiduesimo episodio, Almeno essere umano: «Infatti sei proprio una bambola, tu ti comporti come una bambola e per questo io ti odio da sempre!». L’esser accusati di essere un oggetto-persona credo che sia offensivo per chiunque, però dobbiamo precisare come nell’universo mentale di Asuka le bambole occupino un posto alquanto particolare. Quando la madre impazzì, perdendo la ragione in seguito ad un incidente, la poveretta smise di occuparsi della figlia iniziando piuttosto a trattare come tale un bambolotto; da qui il rifiuto e l’avversione dimostrato dalla ragazza per i pupazzi, nonché la sua smania di crescere in fretta. È chiaro che dal suo punto di vista accusare Rei di essere una bambola rappresenta un insulto particolarmente feroce, un aggressione verbale che però, con suo grande scorno, non riesce affatto a smuovere l’imperturbabile Rei.

Dal canto loro le singolari ginoidi conosciute con il nome di fatima che appaiono nel manga Faibu Sutā Monogatari (The Five Star Stories) di Mamoru Nagano, fumetto barocco e a tratti incomprensibile, non solo condividono con Rei lo status di simulacro biologico ma mostrano di avere non pochi elementi iconografici in comune con le eroine di Matsumoto. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla splendida Maetel del fumetto Galaxy Express 999, i cui eleganti abiti di pelliccia neri non fanno altro che enfatizzarne la fisionomia longilinea e la lunghissima capigliatura biondo-cenere. Entrambe, sia le protagoniste matsumotiane che quelle naganiane, esibiscono un inconcepibile magrezza di stampo anoressico. Offrendo al nostro sguardo una corporeità diafana, nella quale il possesso degli organi interni sembra essere un inutile orpello, dandoci l’impressione di essere impalpabili e incorporee, legate a questo nostro piano fisico da un filo sottilissimo che può essere reciso da un momento all’altro. Senza contare che nell’opera di Nagano, ambiziosa sino alla più sfrenata megalomania, l’albino Amaterasu Dis Grand Gris Eihtath IV (Amaterasu no Mikado), l’illuminato sovrano dell’Amaterasu Kingdom Demesnes (A.K.D) del pianeta Delta Belun è un’incarnazione divina androgina. Avendo a che fare con un’entità soprannaturale, dobbiamo aver ben presente come i limiti dei comuni mortali non valgano per lui.

Amaterasu, quest’essere eccezionale, magrissimo e dai tratti efebici, seppur inizialmente riluttante legherà il suo destino a quello di una fatima di nome Lachesis (più tardi nota come Gihi Lachesis Amaterasu Gries). Le fatima, in genere di sesso femminile (gli esemplari maschili esistono ma sono assai rari), sono dei robot biologici che nei mondi dell’Ammasso Stellare del Joker trovano largo impiego in campo bellico. Costretti a condurre una triste vita da schiavi, a questi simulacri di carne e sangue viene negato il riconoscimento di qualsiasi diritto, ridotti a tutti gli effetti al rango di “strumenti parlanti”. Da qui la necessità di robotizzare ad arte queste sorelle dell’umanità, persino l’obbligo di indossare abiti speciali, studiati per ricoprire interamente ogni centimetro del corpo tranne parte del viso, simili a sofisticati abiti di corte tardo medievali o rinascimentali, è rivolto a questo fine. Si tratta infatti di un dress code studiato appositamente per loro, la cui severità non fa che crescere con il passare del tempo, il quale si accompagna con delle apposite lenti, le eye lens, concepite allo scopo di rendere inespressivi i loro volti. Persino Lachesis, seppur sia stata scelta da Amaterasu e sia un avatar divino come lui, essendo una delle tre Parche della mitologia greca, agli occhi delle popolazioni dell’Ammasso rimane un mero pupazzo. A quanto pare la sua unione con il monarca bianco-chiomato di Delta Belun non possiede tutti i crismi della legittimità, di conseguenza dev’essere tenuta segreta. Solo all’interno della fiabesca corte regia di questo imperatore-dio, posta su di un’isola che fluttua nei cieli, Lachesis viene trattata de facto come una regina. Solo oltrepassando i limiti dello spazio e del tempo, inseguendosi attraverso innumerevoli mondi per poi ritrovarsi dopo infinite peripezie, i nostri due innamorati potranno consacrare la loro unione come si deve dopo un’interminabile odissea. Al cui termine potranno sposarsi alla luce di un astro verde, Fortun, simbolo di una speranza che è stata mantenuta viva nel corso dei millenni. In questo modo la loro storia d’amore, da cui nascerà una figlia eccezionale come i suoi augusti genitori, infrangerà la barriera che sussiste tra l’umanità e i suoi simulacri. Le fatima, trattate come carne da cannone e talvolta persino come oggetti sessuali, soffrono in silenzio a causa della loro condizione, non possono far altro che affidarsi a questa profezia di un riscatto futuro legato a Fortun. Sino a quel momento, l’unica libertà che viene concessa a queste marionette è quella di scegliersi un padrone da servire fedelmente, un cavaliere (headdliner) a cui dovranno legarsi sino a che la morte non li avrà separati. I mezzi bellici di punta del Joker, titani di metallo antropomorfi noti come mortar headd, sono talmente colossali e complessi che necessitano di una peculiare diarchia, costituita da un headdliner accompagnato dalla sua fatima, per potersi muovere in battaglia in maniera efficace.

Una situazione del genere, determinata dall’utilizzo di una particolare tecnologia, sottolinea ancor di più il pesante servaggio a cui le fatima vengono sottoposte, dato che il loro destino è legato a doppio filo sia ai loro cavalieri che ai loro robot giganti (quelli che in gergo si chiamano mecha). Simili condizioni, di deprivazione emotiva e di ferreo controllo liberticida, sono tutt’altro che radi nell’immaginario fantascientifico.

 

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