IL VOLTO DI AYANAMI: i simulacri femminili negli animanga

IL VOLTO DI AYANAMI: i simulacri femminili negli animanga

di Claudio Cordella

Editing Luisa Paglieri

 

PARTE PRIMA

 Rei Ayanami

Per quattro settimane, il saggista Claudio Cordella ci istruirà sulla creazione di esseri artificiali di tipo umanoide, e illustra in quale modo vari autori, nel corso del tempo, abbiano trattato questo tema. Noi rilasciamo uno spoiler: questi esseri, creati spesso per servire gli esseri umani, a volte sviluppano una certa autonomia e diventano perfino capaci di sentimenti. Che cosa succederà?

Federica Leva

 

In base all’iperrealismo concepito dal filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard (1929-2007), così com’è esposto nel suo Simulacres et simulation (Simulacri e simulazione), la televisione avrebbe in sé il potere di allontanarci dal reale, imprigionandoci in un universo fittizio: «[…] la derealizzazione mediatica propria di un mondo trasformatosi in “simulacri” e “simulazioni” che si rimandano gli uni alle altre senza alcun ancoraggio a referenti reali (un processo che si avvierebbe fin dalle finzioni scenografiche dell’epoca barocca) finisce per ribaltarsi in una forma di iperrealtà, in cui a scomparire è la stessa possibilità di distinguere la realtà dall’immagine di essa, con conseguente obliterazione di entrambe […]». Andrea Pinotti, Antonio Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Torino 2016, p. 48.

Si tenga ben presente come non solo la distruzione di ciò che un tempo chiamavamo reale, sostituito dall’iperrealtà plasmata dalla TV, sia qualificato come angosciante ma gli stessi simulacri vengono identificati come delle fonti d’ansia. La presenza di un simulacro implica sempre il rischio che costui possa imitare alla perfezione un essere umano, nelle sembianze così come nel comportamento, in modo tale da riuscire a trarci in inganno. Il che differenzia quest’ultimo da qualsiasi altra creazione hi-tech, compresi quei modelli di robot incapaci di mascherare la loro natura di macchine artificiali, dai quali perciò non ci sentiamo affatto minacciati: «Il robot espone chiaramente il suo carattere di protesi meccanica (ha il corpo metallico, i gesti sono discontinui, irregolari, inumani), e affascina in una sicurezza assoluta. Se fosse il doppione dell’uomo fino alla sua scioltezza gestuale, susciterebbe angoscia». Le système des objets, 1968; tr. it. Il sistema degli oggetti, Milano 2003, p. 155.

All’onor del vero simili problematiche, relative alla creazione di un’umanità artificiale, si ritrovano sin dagli albori della narrativa fantascientifica, basti pensare al fondamentale romanzo del 1818 Frankenstein; or, the modern Prometheus (Frankenstein, o il moderno Prometeo) di Mary Shelley (1797-1851), nonché a Metropolis (1927) di Fritz Lang (1890-1976), un caposaldo della settima arte. Quest’ultimo, oltre a presentare uno scenario urbano che sarà di ispirazione per le produzioni fantascientifiche successive, introduce un particolare genere di robot antropomorfo: la ginoide, la versione femminile del più comune androide dalle fattezze maschili. Un simulacro di tal fatta era già apparso all’interno del racconto del 1815 di Ernst Theodore Amadeus Hoffmann (1776-1822) Der Sandman (L’Uomo della sabbia), riaffacciandosi in seguito nella pellicola di Lang quale strumento di un inganno orchestrato ad arte. Qui ci imbattiamo nelle macchinazioni di una cinica oligarchia futuristica, la quale intende continuare a sfruttare senza ritegno gli operai delle fabbriche, legati alle catene di montaggio come novelli servi della gleba. Al contrario nelle pagine di Hoffmann non è previsto un tale machiavellismo, qui l’automa fa innamorare di sé lo studente Nathanael a causa della sua natura, essendo stato costruito dal suo inventore talmente bene da poter esser scambiato per una donna in carne e ossa.

Nel corso dell’Ottocento L’Uomo della sabbia non è l’unico esempio di narrativa in cui si affacciano dei sosia androidi degli esseri umani, in particolar modo quelli di sesso femminile: «La parola “androide” indica una creatura artificiale concepita come la replica di un essere umano. Venne utilizzata per la prima volta con successo in un romanzo francese del 1886, L’Éve future, che racconta la storia di una ginoide (la variante femminile di “androide”) progettata e costruita allo scopo di dar vita a una nuova Eva, o meglio, a una seconda progenie di creature in grado di riscattare l’Eva decaduta e restituire cosi nuove speranze “scientifiche” all’umanità. […] la ginoide descritta da Auguste de Villiers de L’Isle-Adam e il mirabile prodotto delle rigorose ricerche dell’ingegnere Thomas Alva Edison […] L’intero romanzo è costruito dal dialogo serrato dei due protagonisti e rappresenta un vero e proprio conte philosophique sul rapporto uomo/androide. Se ne L’Uomo della sabbia, Nathanael è vittima di un’allucinazione per la quale percepisce come un essere umano la bambola meccanica di cui è innamorato, in Eva futura il protagonista è coinvolto in una sofisticata indagine dialogica sul rapporto che lui stesso, lucido osservatore, potrebbe instaurare con un essere artificiale». Silvia Milani, Universal robots. La civiltà delle macchine, Milano 2016, pp. 7-8.

Il lord inglese di L’Isle-Adam, disgustato dal carattere della propria fidanzata di cui apprezza solo l’aspetto fisico, accetta la sua sostituzione con un doppione ginoide che trova essere di gran lunga più soddisfacente. Il simulacro, così come avviene in Hoffman, batte l’essere umano anche se all’onor del vero il grado di sofisticazione di Olimpia è sufficiente solo per ammaliare la mente disturbata del protagonista, ossessionato sin dall’infanzia dalla losca figura di Coppelius/Coppola, da lui associata alla lugubre entità nota come l’Uomo della sabbia. È questo nevrotico a confondere un essere inanimato con la figlia di un ingegnere, al contrario i suoi compagni di studi intuiscono sin da principio come vi sia qualcosa di anomalo in quella strana ragazza. Nonostante tutti i suoi limiti costei può senz’altro essere collocata addentro a quella che oggi, dopo gli studi degli anni ’70 di Masahiro Mori, chiamiamo uncanny valley (valle perturbante), quella zona della nostra percezione psichica in cui collochiamo i mimetici della nostra umanità. Si tratta di oggetti-persona che riescono a renderci inquieti a causa della sbalorditiva somiglianza che hanno con noi, seppur Olimpia rispetto ad altri abitanti della uncanny valley a conti fatti risulta essere un esemplare alquanto imperfetto. Voglio qui fare una piccola precisazione, prendo l’uso del termine oggetto-persona sopracitato da un recente lavoro di antropologia di Carlo Severi, L’object-personne. Une anthropologie de la croyance visualle (L’oggetto-persona. Rito Memoria Immagine).

Edito nel corso di quest’anno, il saggio di Severi è incentrato su quel genere di oggettualità che noi tendiamo ad antropomorfizzare. Naturalmente un simulacro, a differenza di una qualsiasi bambola che possiamo solo fingere che sia animata e che abbia il dono della parola, sarebbe da considerarsi come un oggetto-persona in grado di spacciarsi attivamente per una persona vera. Ritornando ad Olimpia, il suo volto è inespressivo, tradisce chiaramente le sue origini meccaniche, solo un alienato come Nathanael non riesce a rendersene conto. Da questo punto di vista siamo ben lontani dal film di Lang, in Metropolis lo scienziato di nome Rotwang che vi compare è un folle artefice, un negromante della modernità tecnologica, complice dei dominatori indiscussi di una sterminata megalopoli del domani. Egli acconsente a camuffare la sua ginoide affinché si sostituisca a Maria, una maestrina molto amata dalle masse popolari, alle cui grazie per altro non si dimostra insensibile il figlio di un magnate, Freder, un ragazzo di buon cuore che non tarda ad innamorarsene. A questo punto, diventata ormai un personaggio scomodo, non tarda a farsi avanti chi ha deciso di liberarsi di lei.

Curiosamente il progetto originario del luciferino Rotwang, poi modificato ad hoc per venir incontro alle richieste fattagli, era rivolto alla creazione del doppio di una donna che aveva amato in passato, tale Hel, la quale l’aveva lasciato per andare in sposa ad un industriale, Joh Fredersen, morendo in seguito di parto. Le richieste di modifiche al suo robot vengono rivolte all’inventore proprio da parte del vedovo di Hel, padre di quel giovane infatuatosi di Maria di cui poc’anzi si diceva, la cui nascita era stata causa della scomparsa della madre e dell’infelicità di Rotwang. Tra l’altro Fredersen non è un milionario qualsiasi, quanto piuttosto è l’imprenditore-dittatore posto al vertice della società a piramide di Metropolis, il signore e padrone di quel mondo spietato. Se la sceneggiatura della pellicola di Lang è basata su di un romanzo omonimo scritto da Thea von Braun (1888-1954), la quale al tempo della realizzazione della pellicola era sposata con il regista, nel dopoguerra in Giappone questo cult-movie influenzò Osamu Tezuka (1928-1989), il quale diede alle stampe nel ’49 il suo manga futuristico Metoroporisu. Tezuka, quantomeno a voler dar credito alla vulgata tradizionale relativa, non assistette ad una proiezione di questo lungometraggio ma rimase folgorato dalla visione di un poster cinematografico relativo ad esso. Vera o meno che sia questa storia, è indubbio come due importanti elementi presenti nel film di Lang, il concetto di ginoide e la raffigurazione di un’immensa megalopoli distopica, debbano aver colpito la sua fertile immaginazione. Non a caso ricorrono anche nei capitoli più squisitamente fantascientifici del suo ambizioso fumetto Hi no tori (La Fenice), rilettura del mito della fenice e riflessione di matrice esistenzialista imperniata sul miraggio dell’immortalità, nonché nella relativa controparte animata del 1980 Hi no tori 2772: Ai no kosumozōn (L’uccello di fuoco 2772), diretta da Suguru Sugiyama. Diversi anni dopo, quando il cosiddetto “dio dei manga” è già scomparso da tempo, il regista Rintaro (Rintarō, Rin Taro) ha l’occasione di dirigere un film d’animazione che si ispira a quel fumetto del primo Dopoguerra, Metoroporisu (Metropolis), uscito nel 2001. Soffermandoci su quest’ultimo, ci imbattiamo nella figura di una ginoide che diventa il fulcro della narrazione, inconsapevole della sua natura di automa non sa nemmeno di essere la chiave di volta di un potente sistema hi-tech. Quest’ultimo, imperniato su una torre chiamata Ziggurat e sul suo trono tecnologico, è talmente potente da garantire a chi se ne impossessi di soggiogare o di distruggere l’intero genere umano, mettendolo in condizione di controllare tutte le armi del mondo.  Se la falsa maestra di Lang è solo una marionetta senz’anima, al contrario nell’anime di Rintaro la situazione è assai più sfumata. Seppur anche in questo caso ella sia al centro di un intrigo, ordito dal megalomane Duca Red che trama per conquistare il potere assoluto per mezzo della tecnologia, qui la fanciulla sintetica di nome Tima è assai diversa dalla ginoide di Rotwang. Tanto per cominciare la prima da principio non è nemmeno consapevole della sua natura robotica, solo nel corso delle peripezie a cui andrà incontro avrà modo di prenderne coscienza. Il Duca, interrogato a tal proposito dalla stessa Tima, confusa riguardo alla sua identità, le risponde dicendole di non considerarsi né un semplice robot né un limitato essere umano (ostacolato dalle emozioni e dalla morale). La sua sarebbe una peculiare condizione di eccezionalità, anzi di superiorità come afferma l’ambizioso Red, tale da porla aldilà delle usuali categorie classificatorie. Purtroppo per lui l’unione con il trono ha come sgradevole controindicazione quella di far completamente impazzire la ginoide, la quale nel preciso momento in cui si ritrova a poter gestire la Ziggurat, questa versione iper-tecnologica della Torre di Babele, pianifica all’istante un genocidio su scala planetaria e una contemporanea ribellione dei robot. Del resto le motivazioni per provare della rabbia nei confronti degli umani non le mancano, appena qualche istante prima le hanno sparato addosso, rendendole palese la sua natura di simulacro nel più brutale dei modi. In seguito l’interfaccia, eseguita in queste condizioni di risentimento, non deve aver fatto altro che peggiorare le cose, facendole perdere in un lampo memoria e senno.

Il Duca, preso dai suoi deliranti sogni utopistici, aveva pianificato per lei un posto da dominatrice senza pensare all’eventualità che Tima potesse andare fuori controllo. Fortunatamente la Ziggurat viene distrutta grazie all’intervento di una specie di figlio adottivo dello stesso Duca, Rock, il quale preferisce premere il pulsante dell’auto-distruzione dell’edificio piuttosto che lasciare che il nobiluomo venga anche solo sfiorato dai robot ribelli. A questo punto ogni cosa crolla e viene divorata dalla fiamme, Tima compresa, ma fortunatamente il suo amato Kenichi, il quale sino all’ultimo ha provato a salvarla, ha potuto osservare come alla fine la sua coscienza umana sia riapparsa nel corso dei suoi ultimi istanti di vita, ritornando ad essere quella di prima, dimostrando di averlo riconosciuto e di aver ricominciato ad interrogarsi su se stessa. Da qui il suo proposito di ricostruirne il corpo, recuperandone ogni singolo pezzo dalle rovine circostanti.

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