Ludus in fabula

 

Ludus in fabula
Danila Comastri Montanari

Editore: Mondadori
EAN: 9788852083518
Pagine: 262 p.
€ 9,99

Genere: Gialli, Gialli storici, thriller storico.

 

Ritorna la bravissima Danila Comastri Montanari con un altro giallo storico. Non so voi, ma io l’ho già inserito nella lista delle prossime letture!

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SINOSSI

È appena sorta l’alba quando Pomponia si precipita alla statua di Cornelia nel Portico di Ottavia alla ricerca dell’ultimo indizio della caccia al tesoro che sta appassionando l’intera città di Roma. Ma stavolta ad attenderla non c’è un indovinello o un disegno misterioso, bensì un indizio orribilmente macabro, davanti al quale la brava matrona stramazza al suolo. Poco dopo corre a bussare alla porta del suo migliore amico, il senatore Publio Aurelio Stazio, per chiedergli aiuto. Intanto un’umanità varia e composita si sta scatenando dietro agli indizi: un ragazzo acuto ma pasticcione, un noto campione di trigono, una donna affascinante dal carattere impossibile, i giovinastri della banda di quartiere che imperversa alla Suburra, un ambiguo segnapunti, tre popolane in cerca della maniera per sbarcare il lunario e uno strano forestiero che assomiglia in modo impressionante al senatore. Ma mentre Aurelio si dedica a far luce sugli enigmi – spalleggiato da valenti collaboratori quali l’astuto liberto Castore, il fido amministratore Paride e l’anatomopatologo Ipparco, precursore dei moderni medici legali – lo sconosciuto ideatore della caccia al tesoro alza la posta e comincia a lasciare come traccia i cadaveri delle sue vittime: quello che era parso a tutti un innocuo passatempo si è trasformato in un gioco di morte, e in palio forse non c’è un immenso tesoro, ma la vita stessa dei concorrenti.

 

UN ESTRATTO

Roma, anno 800 ab Urbe condita (47 d.C.)

Primo giorno
ROMA, PORTICI DI OTTAVIA

I. Dove una matrona curiosa scopre un macabro indizio

Stava albeggiando quando Pomponia, seguita da due ancelle fidate, si fece lasciare dalla lettiga ai portici di Ottavia. Era determinata ad arrivare prima che vi aprissero le numerose tabernae, che le miriadi di ragazzini delle scuole all’aperto sciamassero sotto il teatro di Marcello e che venissero spalancate le porte dei templi di Giunone Regina e di Giove Statore.
Un risveglio così precoce, per una matrona che amava indugiare tra le coltri ben oltre l’ora considerata decente nell’Urbe, doveva poggiare su una ragione sostanziosa. Tale era infatti quella che aveva indotto la brava signora a lasciare anzitempo il tepore del giaciglio, ingollare in fretta e furia uno ientaculum improvvisato a base di avanzi della cena precedente, indossare una veste purpurea ma piuttosto sobria – ovvero con un numero straordinariamente parco di Amorini e Ninfe ricamati sul bordo – e precipitarsi giù dal colle Quirinale come se avesse alle spalle Annibale con tutte le sue schiere puniche.
Adesso, se la sua brillante intuizione rispondeva al vero, non restava che recarsi presso la statua di Cornelia: l’indizio si sarebbe senza dubbio trovato ai suoi piedi. Poteva trattarsi di qualunque cosa: un minuscolo segno sul marmo, un oggetto trascurabile all’apparenza smarrito, un codicillus vergato con scritte misteriose che soltanto un acume straordinario avrebbe saputo decifrare. Era il momento più bello: quello della sorpresa, dell’appagamento, del trionfo.
La matrona raccolse quindi l’ampia veste per correre più veloce, congratulandosi tra sé per aver rinunciato alle solite calzature torreggianti in favore di un paio di sandali dalla suola piatta, che le consentivano di muoversi in tutta libertà.
Non si era sbagliata, gongolò mentre varcava il colonnato nello scorgere una incongrua macchia di colore tra l’omogenea fissità del bronzo: eccolo là l’indizio, e lei sarebbe stata la prima a trovarlo!
Pomponia osservò per un attimo la celebre iscrizione votiva con la quale per la prima volta Roma aveva reso a una donna l’omaggio di un monumento pubblico: Cornelia Africani F. Gracchorum: “Cornelia, figlia dell’Africano, madre dei Gracchi”.
Un attimo dopo la matrona girava dietro la statua, mentre tra le colonne due piccoli occhi vispi la spiavano con curiosità. Le ancelle la videro chinarsi verso qualcosa che giaceva a terra, e quindi scolorare, prima di accasciarsi esanime al suolo.
ROMA, BASILICA EMILIA

II. Dove Aurelio fa uno strano incontro

Chi, ignaro dei segreti dell’Urbe, avesse visto sbucare poco dopo dal vicus Tuscus un uomo alto e bruno dall’aria assai rilassata, con un modesto mantello fatto apposta per celarvi sotto la veste di lana fina, lo avrebbe supposto un pubblico funzionario, un contabile o forse il procurator di una famiglia abbiente ma non ricchissima. Osservando meglio, tuttavia, si sarebbe notato il taglio assai elegante dei capelli, acconciati più corti di quanto imponesse una moda ormai succube delle ondulazioni del calamistrum, poi le unghie curatissime e un paio di calzari di morbido vitello, fabbricati certamente su misura. Ma il particolare decisivo per svelarne l’identità di padre coscritto era l’anello che portava all’indice, col sigillo senatoriale di rubino ruotato verso il palmo per non dare troppo nell’occhio, dato che il vicario del princeps Senatus Lentulo, pur non trovandosi in città quel giorno, aveva disseminato la strada di spie pronte a rivelargli gli eventuali sgarri della giovane moglie, la stessa con cui il patrizio aveva testé avuto un piacevole incontro clandestino.
Fu quindi con accorta prudenza che il senatore Publio Aurelio Stazio si portò nel portico della Basilica Emilia, guardandosi attorno per accertarsi che non vi fossero in vista padri, mariti o fratelli gelosi, né clientes pronti a pietire mance e favori.
All’improvviso tuttavia provò quella specie di disagio diffuso che si avverte quando ci si sente osservati. Non si sbagliava, appurò notando un uomo che stava fissandolo, protetto dalla ressa di cittadini venuti a prendere posto in basilica per assistere a una causa succosissima a base di due diversi adulteri, un tentativo di strangolamento e una cospicua eredità da spartire tra cugini rivali: nessuno dei bravi quiriti voleva perdersi il dibattito, che si annunciava molto più interessante di qualunque spettacolo teatrale, e inoltre era a titolo gratuito.
Aurelio scrutò lo sconosciuto non senza sconcerto. Pur non avendolo mai visto prima, gli pareva di conoscerne in qualche modo i lineamenti. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto del motivo: guardarlo era come contemplarsi in un magico specchio di rame dotato della divina virtù di mostrare la sembianza non del presente, bensì del passato.
Tramandano le antiche storie che al bellissimo Narciso venne predetto dal veggente Tiresia una morte in tarda età, a patto che “non avesse mai conosciuto se stesso”. Il giovane, tuttavia, punito dagli Dei per non aver mai reputato nessuno degno della sua attenzione erotica, si trovò un giorno a invaghirsi perdutamente della propria immagine riflessa nell’acqua al punto da morirne, chi dice annegando nel tentativo di abbracciarla, chi trafiggendosi con una lama per l’impossibilità di possederla.
Tale e quale allo stupore attonito del giovinetto mentre si riconosceva nell’acqua limpida, furono la sorpresa e l’incredulità del patrizio. Rapido a reagire, spintonò la folla, gettandosi in avanti verso lo sconosciuto, il braccio proteso per afferrarlo.
Non sempre però le cose vanno come si spererebbe. Nella calca, la mano del senatore brancò infatti qualcosa di troppo morbido per essere una spalla maschile e nel medesimo istante il suo alluce destro, avvolto nell’esclusiva calzatura di pelle finissima, venne stritolato in una morsa crudele, frantumato come un guscio di noce, pigiato come un grappolo nel torchio, schiacciato come un’oliva nel frantoio.
«Brutto asino schifoso, ti insegno io a palpeggiare le donne indifese!» gridò una matrona colossale, facendo scudo all’enorme seno oltraggiato con un avambraccio grosso come le colonne del tempio di Saturno. E intanto pestava, pestava, pestava, risoluta a ridurre in briciole il piede del senatore.
Sebbene avesse affrontato i barbari Germani nelle cupe foreste del Nord, i Celti feroci nell’Armorica e persino gli infidi Parti ai confini dell’impero, ad Aurelio occorse un bel po’ per liberarsi del donnone. Quando ci riuscì, dell’uomo che gli somigliava troppo non vi era più traccia alcuna.

L’autrice, Danila Comastri Montanari

Danila Comastri Montanari nasce a Bologna il 4 novembre del 1948. Lascia precocemente la scuola, per entrare all’università dove si laurea in Pedagogia (1970) e in Scienze Politiche (1978). Per vent’anni insegna storia alle superiori, e viaggia ai quattro angoli del mondo. Nel 1990 scrive il suo primo romanzo, quindi si dedica a tempo pieno alla narrativa, privilegiando un genere, quello del giallo storico, che le permette di conciliare i suoi principali interessi: lo studio del passato e l’amore per gli intrecci mystery. La saga, fortunatissima, del senatore-detective Publio Aurelio Stazio, pubblicata in Italia da Mondadori, è giunta, con Ludus in fabula (2017), al diciannovesimo volume.

 

2 Risposte a “Ludus in fabula”

  1. Sono una accanita lettrice di gialli storici e Danila Comastri Montanari è tra i miei autori preferiti. La sua scrittura è brillante, ricca di umorismo ma inappuntabile sul piano della ricostruzione storica. Il suo protagonista Aurelio, elegante detective in toga, presenta un pizzico di cinismo e un robusto senso etico. Il servo Castore, la “spalla” di Aurelio, somiglia ai furbi servi della commedia latina ed ellenistica. Una lettura rasserenante

    1. Buongiorno, Luisa. Condivido ogni tua parola! Ho scoperto Danila per caso – un’amica mi ha regalato Cave canem, anni fa – e da allora ho razziato gran parte della sua produzione. L’adoro! Sono felice – ma non stupita 😉 – che anche tu sia una sua fedele lettrice.
      Buona serata!
      Federica

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