Sleeping beauties

Sleeping beauties

Owen King, Stephen King

 

Traduttore: Giovanni Arduino
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine della versione a stampa: 652 p.

EAN: 9788820097714

Genere: Gialli, thriller, horror, Horror e narrativa gotica, Narrativa horror

 

SINOSSI

In un futuro tanto reale e vicino da assomigliare al presente, quando le donne si addormentano accade qualcosa di inquietante: attorno al loro corpo si forma uno strano involucro, bozzolo e scrigno allo stesso tempo. Se qualcuno le sveglia, se l’involucro viene violato, le donne diventano feroci e spaventosamente violente. Ma se le si lascia dormire, entrano in un mondo nuovo. Un altro mondo…

«Che cos’è successo a Kitty?»
«Ha urlato per metà della notte. Ora dorme.»
«Le è uscito qualcosa di comprensibile?»
«Sì, che la Regina Nera sta arrivando.»

Dooling è una piccola città fortunata del West Virginia, con una splendida vista sui monti Appalachi e lavoro per tutti. È a Dooling, infatti, che qualche anno fa è stato costruito un carcere all’avanguardia destinato solo alle donne, che siano prostitute o spacciatrici, ladre o assassine, o ancora tutte queste cose insieme. Ed è una di loro, in una notte agitata, ad annunciare l’arrivo della Regina Nera. Per il dottor Norcross, lo psichiatra della prigione, è routine, un sedativo dovrebbe sistemare tutto. Per sua moglie Lila, lo sceriffo di Dooling, poteva essere un presagio. Perché poche ore dopo, da una collina lì vicina, arriva una chiamata al 911, ed è una ragazza sconvolta a urlare nel telefono che una donna mai vista ha ammazzato i suoi due amici, con una forza sovrumana. Il suo nome è Evie Black. Intorno a lei svolazzano strane falene marroni e sembra venire da un altro mondo. Lo stesso, forse, dove le donne a poco a poco finiscono, addormentate da un’inquietante malattia del sonno che le sottrae agli uomini. Un sonno dal quale è meglio non svegliarle.

Sleeping Beauties è una favola nera gloriosamente ricca di storie, idee, eventi e personaggi memorabili, che inizia con un C’era una volta a Dooling e termina con un finale degno dei King. Potente, provocatorio, sorprendente.


Anonymous Content (casa di produzione di True Detective e Mr. Robot in TV e di Revenant e Spotlight al cinema) si è assicurata i diritti di Sleeping Beauties, per farne una serie con la collaborazione di Stephen e Owen King.

 

PARTE PRIMA

Il vecchio triangolo
Nel carcere femminile
ci sono settanta donne
e tra loro vorrei stare.
Allora sì che il vecchio triangolo
si sentirebbe tintinnare
lungo tutte le sponde del Royal Canal.

BRENDAN BEHAN

 

Capitolo 1

REE chiese a Jeanette se aveva mai notato il rettangolo di luce della finestra. Jeanette rispose di no. Ree era sulla branda di sopra, Jeanette su quella di sotto. Aspettavano l’apertura delle porte per la colazione. Era un mattino come gli altri.
La compagna di cella di Jeanette sembrava essersi studiata a fondo il rettangolo. Ree spiegò che cominciava sulla parete davanti alla finestra, scivolava giù, giù, giù, poi si spandeva sul ripiano della scrivania e alla fine raggiungeva il pavimento. In quel momento Jeanette lo scorse proprio lì in mezzo, abbacinante.
«Ree, non me ne frega niente.»
«Secondo me non può non fregartene niente di un rettangolo di luce!» Ree abbozzò la risata nasale di quando era divertita.
«Non capisco che cazzo stai dicendo, ma d’accordo», rispose Jeanette, e la compagna di cella reagì con una nuova risata di naso.
Ree era una tipa a posto, però era come una bambina e il silenzio la rendeva ansiosa. Era in prigione per uso fraudolento di carta di credito, contraffazione e possesso di droga a fini di spaccio. Non era stata molto abile in nessuna di quelle faccende e si era ritrovata lì.
Jeanette era dentro per omicidio colposo; una sera d’inverno del 2005 aveva colpito il marito Damian all’inguine con un cacciavite a stella, lui era strafatto ed era rimasto a morire dissanguato in poltrona. All’epoca anche Jeanette era strafatta, ovvio.
«Ho controllato l’orologio», proseguì Ree. «Calcolato il tempo. Ventidue minuti perché la luce si sposti dalla finestra al pavimento.»
«Dovresti avvertire il Guinness dei Primati», rispose Jeanette.
«Ieri notte ho sognato che mangiavo una torta al cioccolato con Michelle Obama e che lei mi sgridava: ‘Ingrasserai, Ree!’ Però si ingozzava insieme a me.» Una risata di naso. «No. Non è vero. Me lo sono inventato. In realtà ho sognato una mia vecchia insegnante. Continuava a dirmi che ero nell’aula sbagliata, io continuavo a dirle che ero in quella giusta, e allora lei rispondeva d’accordo, riprendeva la lezione per un po’, e poi mi ripeteva che ero nella stanza sbagliata, io le ripetevo che no, ero in quella giusta, e così via. Esasperante al massimo. Tu che cos’hai sognato?»
«Uhm…» Jeanette si sforzò inutilmente di ricordarlo. La nuova medicina sembrava renderle il sonno più pesante. Prima le capitava di avere incubi su Damian. In genere il marito aveva l’aspetto del mattino dopo, da morto, con la pelle marezzata di un blu simile a inchiostro ancora umido.
Jeanette aveva chiesto al dottor Norcross se pensava che i sogni c’entrassero con il senso di colpa. Il medico l’aveva guardata di traverso con la sua espressione da mi-stai-prendendo-per-il-culo che la mandava in bestia ma aveva imparato a sopportare e poi le aveva domandato se credeva o no che i conigli avessero le orecchie grandi e lunghe. Va bene. Ricevuto. Comunque, Jeanette non sentiva la mancanza degli incubi.
«Scusa, Ree. Niente di niente. Se ho fatto un sogno, ormai è sparito.»
Appena sopra, da qualche parte nel corridoio del primo piano dell’Ala B, un paio di scarpe sbatacchiava sul cemento: quelle di un agente impegnato in un ultimo controllo prima dell’apertura delle porte.
Jeanette chiuse gli occhi. Immaginò di sognare. La prigione era un rudere. Folti rampicanti salivano lungo le antiche pareti della cella, spettinati dalla brezza primaverile. Il tetto era scomparso per metà, consumato dal tempo e ridotto a una gronda. Qualche lucertolina scorrazzava su un cumulo di detriti rugginosi. Farfalle piroettavano nell’aria. Un intenso odore di terra e foglie impregnava i resti della cella. Bobby le era accanto e sbirciava emozionato all’interno attraverso un buco del muro. Sua mamma era un’archeologa. Aveva scoperto quel posto.
«Credi che si possa partecipare a un telequiz se hai la fedina sporca?»
La visione si infranse. Jeanette emise un gemito. Be’, era stato bello finché era durato. La sua esistenza era migliorata di netto grazie alle pillole. L’aspettava sempre un luogo sereno e tranquillo. Bisognava dare credito al medico: la chimica ti aggiustava la vita. Jeanette riaprì gli occhi.
La compagna di cella la fissava con l’aria stralunata. Il carcere non era uno spasso, però forse una ragazza dello stampo di Ree era più al sicuro dietro le sbarre. Nel mondo là fuori, probabilmente sarebbe stata investita mentre cercava di attraversare la strada. O avrebbe spacciato droga a un agente della Narcotici che non somigliava per niente a un agente della Narcotici. Come d’altronde aveva fatto.
«Cosa c’è che non va?» chiese Ree.
«Nulla. Ero in paradiso, punto e basta, e la tua boccaccia ha rovinato tutto.»
«Non capisco.»
«Non importa. Ascolta, credo che dovrebbe esistere un telequiz dove partecipi solo se hai la fedina sporca. Potremmo chiamarlo Mentire per averla vinta.»
«Mi piace un sacco! E come funziona?»
Jeanette si rizzò a sedere con uno sbadiglio e una scrollata di spalle. «Ci penserò su. Bisognerà fissare delle regole.»
La loro casa era sempre stata così e per sempre lo sarebbe rimasta, nei secoli dei secoli, amen. Una cella lunga sette metri, con tre metri dalle brande alla porta. Le pareti erano di cemento liscio tinta porridge. Cartoline e fotografie dai bordi arricciati (niente che balzasse all’occhio) erano appiccicate con grumi di mastice verde nell’unico spazio autorizzato. Contro un muro, una piccola scrivania metallica, e contro quello opposto una corta scansia dello stesso materiale. A sinistra dell’entrata, la tazza di acciaio sulla quale erano costrette ad accovacciarsi, abbassando lo sguardo per una pia illusione di intimità. La finestrella della porta, con i doppi vetri ad altezza uomo, si affacciava sul breve corridoio che attraversava l’Ala B. Ogni centimetro e ogni oggetto della cella erano saturi dell’odore penetrante del carcere: sudore, muffa e lisoformio.
Alla fine Jeanette osservò controvoglia il rettangolo di sole tra le brande. Sfiorava la porta, ma non avrebbe mai potuto superarla, giusto? Era intrappolato là dentro proprio come loro, a meno che un secondino non avesse infilato la chiave nella serratura o aperto la cella dal gabbiotto.
«E chi lo condurrebbe?» chiese Ree. «Tutti i telequiz hanno bisogno di un conduttore. E poi, i premi? Devono essere belli. I dettagli! Vanno studiati i dettagli.»
Ree teneva la testa sollevata sul cuscino e guardava Jeanette rigirandosi un dito tra i folti riccioli ossigenati. Quasi in cima alla fronte aveva una serie di cicatrici che sembravano i segni di una graticola: tre profonde linee parallele. Anche se Jeanette non aveva idea di che cosa ne fosse stata la causa, riusciva a immaginarsi il chi: un uomo. Forse il padre, forse il fratello, forse un fidanzato, forse un tizio mai incontrato prima e mai più rivisto. Tra le detenute del carcere di Dooling non c’era una lunga tradizione di premi vinti ai telequiz, giusto per usare un eufemismo. Invece, ne esisteva una chilometrica di brutti ceffi.
Come reagire? Piangendoti addosso. Odiando te stessa o chiunque altro. Sniffando prodotti per la pulizia con la speranza di sballare. Facendo quello che ti pareva (nell’ambito di una rosa di scelte senza dubbio limitata), tanto la situazione non sarebbe cambiata. Il turno di girare la grande, fantastica e luccicante Ruota della Fortuna sarebbe arrivato solo con la prossima udienza per la libertà condizionale. In quell’occasione Jeanette si sarebbe impegnata al massimo. Doveva pensare al figlio.
Uno scatto sordo rimbombò nell’aria quando l’agente nel gabbiotto sbloccò le sessantaquattro porte. Le sei e mezzo del mattino, tutte fuori di cella per la conta.
«Non saprei, Ree. Riflettici su», disse Jeanette. «Farò lo stesso e dopo ci scambieremo i pareri.» Spostò le gambe dalla branda e si alzò.

 

GLI AUTORI

Owen King

Stephen King vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha. Le sue storie sono clamorosi bestseller che hanno venduto centinaia di milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Brian De Palma, Stanley Kubrick, Rob Reiner e Frank Darabont. Accanto ai grandi film, innumerevoli gli adattamenti televisivi tratti dalle sue opere. King, oggi seguitissimo anche sui social media, è stato insignito della National Medal of Arts dal presidente Barack Obama.

Le biografie sono state reperite nel web